Il TEATRO TIBETANO, “A ce lha mo”

  • by Redazione
  • |
  • 06 Giu 2018
  • |

La tradizione teatrale in Tibet risale al XV° secolo, quando il monaco Thangtong Gyalpo (1385-1464) della setta Gelugpa dei ‘Berretti Gialli’ compose e diresse opere di canto e danza ispirate a storie buddhiste. Oggi si possono vedere – in città campagne e villaggi tibetani – innalzate grandi tende per rappresentazioni dove operano compagnie di teatro popolare.

L’evento teatrale avviene in occasione di una festa religiosa tradizionale del calendario lunare e autorizzata dall’ufficio amministrativo regionale. I residenti dei villaggi accorrono entusiasti, con folle di spettatori e si accampano per mangiare e dormire in forma comunitaria. Il pubblico fin dalla mattina presto siede sui tappeti mentre alcune tribune sono allestite per i membri del governo, gli ospiti stranieri e le alte gerarchie ecclesiastiche. Quindi un corteo di attori, pone sull’altare una piccola statua di Thangtong Gyalpo, fondatore del teatro tibetano. Così iniziano i rituali, in una sequenza codificata di danze e canti che innanzitutto consacrano lo spazio, ovvero trasformano un cortile di monastero o una radura nel luogo in cui la comunità si riconoscerà nelle forze che regnano sotto e sopra la terra, e in cielo.

Questa cerimonia detta ‘Esortazione’ è officiata da tre gruppi di figure: i ngonpa (cacciatori o pescatori), le belle lhamo che formano il coro e due gyalu (capivillaggio) interpretati da attori più anziani e rispettabili. Gli attori assumono così una funzione sacerdotale, mentre si alternano canti corali solenni in onore delle autorità religiose o in lode delle catene montuose dell’Himalaya, sequenze acrobatiche e improvvisazioni, con i ngonpa in funzione di buffoni. Tutto è accompagnato dai ritmi dell’orchestra, composta normalmente da un suonatore di timpani e uno di tamburo. Una volta conclusa l’Esortazione entra l’attore capo che, in qualità di Narratore, espone l’antefatto e presenta i protagonisti.

A ce lha mo, o più familiarmente Lhamo, è un caso unico di teatro dal nome femminile, essendo A ce lha mo un’espressione che indica una dea benevola, modello di grazia e di bellezza. Le lhamo, o dakini (apsaras /danzatrici celesti) formano il coro che è sempre presente in scena e interagisce con i protagonisti. Esse sono interpretate indifferentemente da attrici o attori, ma le attrici non sono normalmente ammesse a recitare nei monasteri e alla festa dello Shotön quando i monaci consumano lo yogurt (shotön) una volta finito il ritiro spirituale. Durante questa festa religiosa e di stato, che si celebra in agosto a partire dal Monastero di Drepung (dove viene esposto il Grande Thangka) per finire al Monastero di Norbulingka, sono previste molte rappresentazioni teatrali.

Il repertorio tradizionale del teatro tibetano è limitato attualmente a una decina di testi, quasi tutti fissati nel XVIII secolo, sotto il regno del V Dalai Lama. I copioni composti e accolti successivamente possono differire nei temi, però si basano sui medesimi canoni espressivi (melodie, coreografie, maschere e costumi, ecc.). Il nucleo di ogni Lhamo è costituito da canti le cui partiture di base sono definite secondo i personaggi e la necessità espressiva (ira, invocazione, domanda, supplica, decisione, ecc.). Le modalità espressive utilizzate sono: canto solista in dialogo con il coro, canto corale, recitazione parlata, recitazione ritmica, duetti, dialoghi, accompagnati da gesti convenzionali e movimenti coreografici. il Narratore, che svolge un’azione didascalica e di raccordo, è molto importante e interviene spesso, con una recitazione che somiglia al rap contemporaneo. I copioni dei singoli lhamo sono comunque aperti, nel senso che ogni volta si decidono i modi delle parti improvvisate e si adattano alla durata della rappresentazione, che può variare dalle tre ore a più giornate.

I soggetti sono a volte di origine indiana o tratti da storie accolte nel canone tibetano detto Tanyiùr. Di solito si racconta di un regno non ancora conquistato alla fede buddhista o dove la religione è degenerata (per questo vi appaiono personaggi come indovini indù o stregoni di vario tipo). In questa regno c’è sempre una questione che riguarda bambini, talvolta desiderati dagli sposi ma che faticano ad arrivare. La vicenda principale riguarderà proprio il loro percorso verso l’età adulta e la successione ai genitori sul trono. I copioni comunque costituiscono una parte fondamentale del patrimonio letterario tibetano e alcuni di essi sono senz’altro da considerarsi capolavori.

Per esempio il dramma Nangsa rappresenta l’eroina che si ribella a una vita di moglie e madre per inseguire un ideale ascetico, per questo viene maltrattata e uccisa, ma risorge e infine vince la sua battaglia con l’aiuto del Lama suo maestro spirituale.

Il dramma intitolato Dhonyoe e Dhondup si apre con i due sovrani che partono per ottenere da una lontana divinità la fertilità della regina (sulla barca di stoffa sono dipinti il mare e i pesci). La fase successiva riguarda le vicende del bambino o dei bambini colpiti da persecuzioni, complotti e avversità.

Infatti il contenuto del lhamo è sempre un racconto del divenire adulti o ‘racconto di formazione’, in cui, per raggiungere la maturità e la realizzazione dei propri ideali, bisogna affrontare difficili prove, senza garanzia di successo: montagne e tempeste, mostri, briganti e animali feroci. La possibile riuscita prevede sempre due soluzioni principali: conquistare la felicità soprattutto dispensando felicità agli altri, oppure scegliere la via della rinuncia e del ritiro, raggiungendo in tal modo l’obiettivo ultimo della felicità illuminata e il ritorno al Sé. Le vicende e le prove cui sono sottoposti i giovani protagonisti sono delineate secondo il modello della iniziazione sciamanica le cui costanti sono un maestro – guida, alcune prove estreme, compresa la morte (simbolica e rituale) per rinascere alla vita autentica. In ogni lhamo inoltre non mancano tesori di sapienza (Terma) custoditi da draghi o deità terrificanti che regnano in luoghi impervi o sul fondo di laghi e mari

Una sequenza di danze e canti eseguita da tutta la compagnia costituisce il rito conclusivo del teatro inteso come una sorta di iniziazione Quindi si può tornare alla cornice civile e laica. Ogni attore ringrazia il pubblico personalmente, e gli spettatori o i rappresentanti delle istituzioni omaggiano gli artisti con diverse khata, le sciarpe beneaugurali bianche. Quando lo spettacolo è finito può ricominciare la festa, di cui sono protagonisti assoluti gli spettatori. Qualcuno suona tamburo e timpani, altri danzano, i più piccoli si divertono. La festa nella tradizione durava anche per alcuni giorni coinvolgendo allegramente tutto l’accampamento creato attorno al luogo della rappresentazione.