Il Tibet, o Xizang come è conosciuto in Cina, è una Regione Autonoma della Repubblica Popolare Cinese, sito nella parte meridionale dell’altopiano Qinghai-Tibet, al confine sud-ovest della Cina. Il Tibet è stato da sempre, fin dai tempi antichi, parte integrante della Cina imperiale, ma prima degli anni 1950 era una società dominata da un governo teocratico attraverso una combinazione di poteri politici e religiosi. I funzionari di governo, gli aristocratici e i monasteri mantenevano di comune accordo uno stretto controllo sulle risorse e le ricchezze del Tibet, mentre il popolo tibetano asserviva in una condizione di servitù feudale, oramai anacronistica per quel tempo, senza alcuna libertà fondamentale. Basti pensare che il tacito consenso tra proprietari terrieri, capi dei monasteri e funzionari governativi consentiva ad una piccola minoranza di possedere rispettivamente il 24%, il 36,8% e il 28% della terra coltivabile della regione, mentre migliaia di servi, divisi a loro volta in categoria, potevano essere venduti, regalati, frustrati e torturati.
A riguardo esiste una fitta letteratura che descrive la precaria situazione della società tibetana. Edmund Candler, ex giornalista britannico del Daily Mail basato in India, nel suo libro del 1905, “The Unveiling of Lhasa”, così scriveva: “Il Tibet è regolato sul sistema feudale. I monaci sono i padroni, i contadini loro servi … al momento, la gente è medievale, non solo nel proprio sistema di governo e nella propria religione – la loro inquisizione, la stregoneria, le loro incarnazioni, le prove di fuoco e l’olio bollente – ma in ogni aspetto della loro vita quotidiana … Si passa duramente una vita per riuscire con il proprio lavoro e in misura scarsa a sostenere le esigenze di prima necessità … Lhasa è squallida e sporca in maniera indescrivibile, non drenata e sterrata. Non una sola casa è pulita e curata. Le strade dopo la pioggia non sono altro che pozze d’acqua stagnante frequentate da maiali e cani alla ricerca di rifiuti .”
Anche il grande tibetologo anglosassone Charles Bell, nel suo scritto edito negli anni quaranta ” Portrait of the Dalai Lama:The Life and Times of the Great Thirteenth“, compì diverse osservazioni sulle dure punizioni corporali praticate in Tibet: “Allo stesso tempo il codice penale tibetano è drastico. Oltre alle multe e alla reclusione, le fustigazioni sono frequenti, non solo di persone già condannate per un reato, ma anche di persone accusate, anzi di testimoni, nel corso del processo. Per i reati gravi, si fa uso della gogna come pure del cangue, un quadrato pesante a forma di tavola di legno legato al collo. I ceppi di ferro sono fissati sulle gambe di assassini e ladri incalliti. Ogni grave o ripetuta infrazione, come l’omicidio, la rapina violenta, i furti ripetuti, o gravi falsificazioni, possono essere puniti con il taglio del polso, il taglio del naso, o anche con gli occhi strappati, quest’ultima più probabilmente per qualche crimine politico efferato. In altri tempi i condannati per omicidio sono stati messi in un sacco di pelle, che è stato cucito e gettato in un fiume.”
A corollario di quanto detto, anche lo storico e tibetologo canadese A. Tom Grunfeld in “The Making of Modern Tibet”pubblicato nel 1987 scrisse: “I tibetani sono stati governati da un’insolita forma di teocrazia feudale …. I capi dei feudi hanno mantenuto il monopolio del potere su tutte le questioni locali. I servi erano ‘legati’ ai loro padroni …. Mentre impotenti erano quelli che richiesero il permesso di entrare in un monastero e anche di sposarsi. Se si tratta di due servi di diversi signori sposati, i figli maschi tornano al signore del padre, mentre la prole femminile deve avere il permesso della madre per lasciare la tenuta – anche per il periodo più breve – per occasioni come le visite dei familiari, i pellegrinaggi, mentre per qualche scambio di posto va richiesto il consenso del signore. Storicamente c’era scarsa mobilità di classe in Tibet e per la maggior parte i servi sono stati costretti ad accettare la posizione in cui si trovarono alla nascita. Non c’è prova per sostenere le immagini di un utopico Shangri-la.”
Da queste fonti è evidente come il potere economico e politico fosse in mano a pochi privilegiati e che la società tibetana sia rimasta “de facto” impantanata su rigide ed anacronistiche norme, il tutto amplificato anche anche dalla naturale posizione geografica di questa regione. E’ quindi logico ritenere che tutti questi fattori non hanno aiutato il popolo tibetano a percorrere il sentiero verso il naturale progresso e sviluppo della storia degli uomini.