Gli italiani sono stati per secoli protagonisti nell’unire Occidente ed Oriente. Il mondo occidentale, ed in particolare il mondo europeo, è sempre stato attratto dall’Oriente. Dal misticismo indiano alla sacralità del Tibet, per passare al fascino della corte cinese e all’isolato Impero del Giappone, la scoperta della “frontiera dell’Est” è stata sin dall’inizio intrisa da intenti missionari. Un concetto che è valido anche quando parliamo della storia delle relazioni tra Tibet e le grandi signorie d’Europa: sono stati i monaci francescani a portare per primi molte delle prime descrizioni del Tetto del Mondo. Preziosi scritti che hanno segnato un grande passo nella conoscenza di mondi e culture profondamente diverse tra loro. In questa cornice un manipolo di dotti italiani possono essere annoverati tra i Primi orientalisti e tibetologi del mondo occidentale, i cui studi hanno posto le basi per relazioni ben più profonde tra le due frontiere. Ma partiamo dall’inizio.
Giovanni da Pian dal Carpine, il primo missionario
Vero iniziatore delle missioni cristiane in Asia fu il francescano Giovanni da Pian del Carmine. Nel 1245 il compagno di San Francesco d’Assissi, fu il primo europeo a riportare in maniera precisa e dettagliata ciò che accadeva in Oriente con l’invio a Roma della sua Historia Mongalorum. Ad oggi sappiamo che lo nacque come tentativo di rispondere ad una esigenza di carattere più politico che teologico, dato che al suo interno viene analizzato la corte, il popolo e l’impero mongolo con dettagliate analisi sulla sua forza e sulla sua organizzazione sociale e militare. Tra le sezioni, quella che a noi interessa nel nostro caso, è quella sul Tibet. Il Pian dal Carmine, come già notò Marco Polo nelle sue memorie, notò nel buddhismo tibetano – e nei tibetani stessi – un elemento intrinseco nella vita spirituale dell’élite. Il dotto francescano descrisse minuziosamente aspetti della loro vita, incluso il jhator, il cosiddetto “funerale del cielo” (di cui abbiamo parlato in un altro nostro articolo).
Eppure dobbiamo aspettare un altro francescano, Odorico Mattiussi, meglio conosciuto come Odorico di Pordenone, per avere notizie più dettagliate sul Tibet. Arrivato in Cina intorno al 1320, dello Xizang scrisse: “Il Tibet è quel regno dove abita il papa degli idolatri”. Non è ben chiaro se Marriussi si riferisse a Buddha, ai Lama o al re del Tibet in se per se. L’affermazione di Odorico di aver visitato il Tibet può essere vero, sebbene gran parte del suo materiale sia stato chiaramente raccolto dall’incontro con i tibetani fuori della regione e il suggerimento che abbia visitato Lhasa, è stato ampiamente scartato dalla storiografia moderna. Un altro italiano, Rodolfo Acquaviva, nel 1582 redasse una prima e piuttosto accurata mappa del Tibet.
L’età della conquista: Arrivano spagnoli e portoghesi
Nel concreto gli italiani, specialmente dotti chierici, monopolizzarono la corsa ad Oriente. Tuttavia con l’avvento del cinquecento, e con esso l’età delle spedizione e scoperte per il mondo, spettò a Spagna e Portogallo l’onere di spingersi in alto fino al Tibet. Nel Mongolicae legationis commentarius del 1591, lo spagnolo Antonio Monserrate scrive di “vestigia perdute di una religione molto simile al cristianesimo nascoste nelle remote valli dell’Himalaya dove i sacerdoti leggevano le scritture e distribuivano il pane e il vino”. Non si capisce ancora oggi se le parole di Monserrate avevano un secondo fine missionario, dato che i francescani prima ed i gesuiti poi, utilizzarono concetti, insegnamenti e parole del credo buddhista per convincere ad evangelizzare gli alti papaveri della corte cinese. L’esploratore spagnolo paragona persino il lago Manasarovar come “il nuovo ed ancestrale lago di Tiberiade”. Dello studio dell’esploratore spagnolo, ciò che invece è degno di nota, sono le accuratezze geografiche con cui vengono riportati luoghi e città del Tibet dell’epoca.
Nonostante il guizzo di Monserrate, in seno alla chiesa di Roma, guidata dalla delegazione di Matteo Ricci, l’uomo che passerà alla storia come il “gesuita cinese”, l’interesse si polarizzò sull’evangelizzazione di Cina, Giappone ed India. Il Tibet rimase de facto una nota a piè di pagina delle grandi missioni europee. Anche perché, bisogna ammettere con franchezza, se alcune valli del Tibet sono difficili da raggiungere oggi, figuriamoci 5 secoli fa!
I Bodhisattva sono nati in Occidente? I primi cristiani di padre Andrade
Tuttavia la descrizione di un “luogo cristiano sperduto sull’Himalaya” in Tibet da parte del Monserrate, ha certamente ispirato il portoghese António Andrade, capo della missione dei gesuiti ad Agra dove Jahangir Khan si trovava negli ultimi anni del suo regno. Sappiamo dalle cronache che Andrade unì a un gruppo di pellegrini indù a Badrinath, nel moderno stato indiano dell’Uttarakhand, viaggiando con il suo compagno sacerdote Manuel Marques lungo il fiume Alaknanda verso il confine tibetano. Lasciandosi alle spalle Marques, Andrade viaggiò all’ombra della montagna Kamet, a sole quindici miglia a nord di Badrinath e raggiunse il Mana Pass a 5600 metri, soffrendo di cecità da neve e dei “vapori nocivi” che Andrade credeva fossero la fonte del suo mal di montagna. Vide davanti a sé l’altopiano arido del Tibet: il primo europeo a descrivere la faticosa realtà del viaggio himalayano. Deve essersi pensato su un altro pianeta.
Andrade tornò a Badrinath, ma dopo un mese decise nuovamente di varcare i confini Tibetani. Era finalmente entrato nell’antico regno di Guge. O almeno ciò che ne restava. Il missionario portoghese apprese infatti che gran parte del suo potere politico si era spostato a est fino a Lhasa, e ad ovest a Ladakh. Il re di Guge era tuttavia aperto all’idea del cristianesimo. Era possibile che i Bodhisattva fossero sorti in Occidente? Viene riportato nelle cronache del tempo. E poiché la verità non può nuocere alla verità, perché Andrade non dovrebbe predicare il Vangelo e sfidare gli insegnamenti del Buddha? Andrade, con il permesso e i fondi del suo superiore a Goa, nel 1625 fondò una piccola a chiesa Tsaparang, la stupefacente città-fortezza, con annesso complesso monastico, sita nella valle di Sutlej. Un piccolo numero di sacerdoti ha lottato per mantenere la missione in corso fino alla fine degli anni ’20 del Seicento e i loro resoconti forniscono preziose informazioni sulla vita religiosa ed economica di Guge. Andrade era incuriosito da quanto gli ordini monastici tibetani assomigliassero a quelli cristiani. Eppure i loro sforzi furono vani.
Nel 1630, Tsaparang cadde in mano al grande re ladakhi Sengge Namgyal, che costruì l’imponente palazzo a Leh e fondò il monastero di Hemis. Ridusse in schiavitù le poche centinaia di convertiti che i gesuiti avevano fatto, compresi due dei sacerdoti: ci volle uno sforzo diplomatico concertato per estrarli da Leh. Iniziò quindi una rapida repressione religiosa di qualsivoglia “spiritualità straniera”, spinta in particolare mondo dal clero buddhista, ansioso di ristabilire l’ordine e che vedeva, nella religione cristiana, un pericoloso outsider. Manovre spinte anche dall’insediamento in Cina della nuova dinastia Ming.
La chiusura al mondo ed il mito di un Eden. Il Tibet si idealizza nella filosofia occidentale
Il tentativo dei gesuiti di convertire il Tibet potrebbe essere stato eccessivamente ottimista? Sicuramente, ma era determinato da uno zelo incredibile. Tuttavia l’aria era cambiata, i nuovi esploratori erano più spinti dalla curiosità mistica, e conoscenze geografiche, piuttosto ste dalla voglia di evangelizzazione.
Nel febbraio 1627, altri due gesuiti, Estevão Cacella e João Cabral, divennero i primi europei ad entrare in Bhutan, dove furono presto derubati e gettati in prigione. Incontrarono il primo re del Bhutan, il monaco Kagyu Ngawang Namgyel, e, seguendo l’esempio di Monserrate, chiesero informazioni sulle regioni vicine nella speranza di localizzare le comunità perdute di cristiani. Fu detto loro di Shambhala, che i due scambiarono per il Cathay, la cui posizione era una questione di ardente interesse geografico per i missionari gesuiti in tutta l’Asia. Il Cathay era la Cina? O da qualche altra parte? Il loro resoconto di questo viaggio includeva il primo riferimento da un europeo a questo paradiso mitico e delle sue origini nel passato sciamanico semidimenticato del Tibet occidentale.
Questo mondo perduto di perfezione, un parallelo così ovvio con l’Eden, e il tenue legame tra cristianesimo e buddismo, sarebbe diventato un argomento avvincente per gli avventurosi ricercatori spirituali alla fine del diciannovesimo secolo. Passato al Tibet dal crescente interesse accademico e filosofico per il buddismo – Hegel era affascinato dalla nozione di vuoto – i mistici della new age salirono a bordo del carrozzone, inclusa la teosofa Helena Blavatsky, la cui banda inventata di esseri illuminati, i Maestri dell’Antico Saggezza, ha affermato di aver incontrato il Tibet. In poche parole, l’ordine mistico dei monasteri e località del Tibet stava facendo eco alle fantasie tibetane dei teosofi. Eppure la nozione di una valle segreta di ristoro e guarigione spirituale è da sempre presente nella cultura tibetana, che non disdegna l’esoterico. Questo concetto è ben rappresentato nell’idea di beyul, valli sacre le cui posizioni segrete sono nascoste in testi in attesa di essere letti dai maestri spirituali. La conclusione? C’è bisogno di Eden, o Shambhala, in tutti noi. Che i monaci europei cercarono di trovarla in Tibet? Probabilmente si.