La Regione Autonoma Cinese del Tibet, pur preservando le sue millenarie tradizioni culturali, vive in questi anni una stagione di straordinaria crescita economica e sociale, sostenuta dagli importanti investimenti programmati dal Governo di Pechino. Dimenticati i secoli bui del suo passato feudale – quando il fattore religioso esercitava un ruolo prevalentemente oscurantista – il Tibet è oggi al centro di quella Nuova Cina che guarda alla modernizzazione e all’apertura verso l’esterno.
Compendiare in poche righe la millenaria storia tibetana non è compito affatto semplice; così come è altrettanto arduo dare sommariamente conto dello straordinario patrimonio naturale, architettonico, artistico e spirituale di questa importante regione cinese. Altrettanto vale per le dinamiche economiche di grandioso sviluppo che hanno riguardato quest’area interna della Repubblica Popolare Cinese negli ultimi decenni, la quale, grazie ai costanti sforzi del governo centrale di Pechino, ha raggiunto standard sociali ragguardevoli. Tuttavia, almeno alcuni passaggi epocali ed alcune peculiarità culturali vanno sicuramente rammentati, visto che ancora oggi la coltre di fumo alzata da alcuni organi della disinformazione occidentale pare rimanere abbastanza fitta.
Le prime notizie su questa remota regione furono riportate in Europa dagli esploratori: prima il perugino Giovanni da Pian del Carpine (1246-’47) e Guglielmo di Rubruck (1253-’56), poi Marco Polo, che dedicò al Tibet ben tre capitoli del Milione. Il primo europeo che stazionò più lungamente nel Tibet fu Odorico da Pordenone (1314-’30), che vi passò durante il suo viaggio di ritorno da Kambaluk e visitò anche Lhasa. Testimonianze più recenti sono quelle del 1624, anno nel quale il gesuita portoghese Antonio de Andrade valicò l’Himalaya e raggiunse Tsaparang nell’alta valle del Sutlej, dove tornò l’anno successivo fondandovi una missione. Successivamente si ebbero i viaggi di Estevão Cacella e di João Cabral, i quali nel 1626 andarono a Shigatse attraverso il Bhutan; di Francisco de Azevedo, che si recò a Leh nel 1631; dei gesuiti Johann Grüber e Albert d’Orville, che nel 1661 dalla Cina attraverso il Kuku nor si recarono a Lhasa, dove sostarono un mese e mezzo, dirigendosi ad Agra attraverso il Nepal. Lhasa fu successivamente visitata da missionari cappuccini: nel 1708 da Padre Giuseppe da Ascoli nel 1708 e nel 1709 da Padre Domenico da Fano. Nel 1716 vi giunse una figura più conosciuta, il gesuita Ippolito Desideri, che da Srinagar si recò a Leh, dove rimase quasi due mesi, poi a Tashigong, Gartok e Sarka, finché nel marzo dello stesso anno fece ingresso nella capitale del Tibet. Venendo ad anni più recenti, non può non essere ricordata la figura di Giuseppe Tucci (1894-1984), senza dubbio il maggior orientalista di lingua italiana nonché uno dei maggiori tibetologi di ogni epoca. I suoi studi abbracciarono tanto il campo dell’indologia quanto quello della sinologia e delle lingue e religioni tibetane.
Il termine “Tibet” risale presumibilmente a più di due millenni or sono; le ipotesi più accreditate lo fanno derivare dalla denominazione araba Tibat o Tobbat, tratta a sua volta da quella antica cinese Tǔbō o Tǔfān. Va notato che il primo termine con cui le popolazioni nomadi degli altipiani centroasiatici di questa etnia erano soliti designare il loro paese di appartenenza era Bod o Bod-vul, un termine arcaico che stava a significare “luogo nativo” o “paese di origine”. Parimenti è importante sapere che nella lingua cinese questa regione (spesso indicata con l’acronimo inglese T.A.R., ovvero Tibet Autonomous Region) è lo Xīzàng Zìzhìqū, territorio che dal 1965 ha lo status di regione autonoma all’interno della Repubblica Popolare Cinese. La lingua tibetana viene assegnata al gruppo delle lingue sino-tibetane. Tra le lingue classiche tibetana e cinese esiste una certa somiglianza, ma i due idiomi si sono differenziati notevolmente nei secoli. L’ortografia e la grammatica del tibetano sono basate su quelle della lingua sanscrita, per cui questa lingua costituisce un interessante ibrido tra la famiglia sinica e quella indo-europea. Per quanto le fonti storiche siano abbastanza discordanti quando non del tutto nebulose, si ritiene per lo più che l’origine del popolo tibetano risalga alle tribù nomadi Ch’iang, le quali erano dedite all’allevamento di pecore e bestiame nei territori dell’Asia centro-orientale, e si spinsero verso i confini nord-occidentali della Cina già diversi secoli prima dell’era cristiana. Questo popolo si caratterizzava appunto per l’allevamento di animali, oltre che per un’elevata propensione alla mobilità tra gli altipiani dell’Asia centrale ed una innata abilità nell’allevamento dei cavalli e degli yak.
Non è per nulla casuale che la quasi totalità delle fonti storiografiche esistenti su questo periodo siano di origine cinese: da un lato lo sterminato patrimonio costituito dai reperti e dai manoscritti ritrovati nel secolo scorso nelle grotte di Mogao vicino a Dunhuang, nella provincia del Gansu. Dall’altro, la ricchezza culturale contenuta nel Libro dei Tang, che incasellano il Tibet degli albori tra le civiltà più prossime a quella cinese. Sempre secondo la tradizione, nella prima metà del settimo secolo dopo Cristo, il re Songtsen Gampo inviò nel Kashmir il suo primo ministro, Thönmi Sambhata, per studiare il sanscrito e la letteratura buddhista. Quest’ultimo, al suo ritorno in Tibet, inventò un nuovo alfabeto e compose la prima grammatica in lingua tibetana.
Il buddhismo tibetano ha incorporato anche alcuni aspetti del Tantra, una setta che, tramite pratiche esoteriche, offriva una via maggiormente rapida per raggiungere il Nirvana. Padmasambhava, che attorno al 750 d.C. fondò un monastero nei pressi di Lhasa, conservò molti elementi del Tantra, mentre cercava di adattare il buddhismo alle condizioni locali. Mentre questa particolare variante del buddhismo si radicava in Tibet, egli creò monaci e ordinò religiosi mendicanti, accolse novizi e fanciulli in prova. Fondò la setta dei cosiddetti “Berretti rossi”, e consolidò ben presto la propria posizione. Ma mentre sembrava che il buddhismo si fosse ormai solidamente radicato nel panorama religioso tibetano, sotto la superficie covavano alcuni problemi. Gli sciamani della setta Bön, sentendosi scalzati dalla loro posizione di supremazia, cominciarono a recuperare il terreno perduto. Tale contenzioso fu durissimo, e per oltre un secolo riuscirono a scacciare il buddhismo dal contesto tibetano; questo riemerse solo dopo il 1042, quando il grande maestro e riformatore indiano Atiśa Dīpaṃkara Śrījñāna (982-1054) visitò il Tibet, dedicando i restanti dodici anni della sua vita alla rinascita del buddhismo, in una nuova veste dottrinale. Egli cercò di eliminare l’influenza del bön e fece sì che il buddhismo tornasse a ricoprire un ruolo egemone nella sfera religiosa. Tuttavia, il buddhismo tibetano venne diviso in quattro sette: la setta rossa, la setta gialla, la setta bianca e la setta variegata. Alcuni tibetani includono anche una quinta setta, la setta nera, guidata dai Karmapa. Le sette rossa e bianca dedicarono molto più tempo a studiare i Tantra anziché gli aspetti più spirituali del buddhismo. La setta dei Berretti gialli, cui appartennero i futuri il Dalai Lama, venne fondata nel XIV secolo da Lopsang Drakpa, meglio noto come Tsong-khapa. La setta dei Berretti gialli sarebbe diventata la corrente principale del buddhismo tantrico tibetano, che privilegia la disciplina e l’apprendimento, ma che maggiormente si sarebbe occupata delle vicende politiche e temporali locali nei secoli a venire.
Va peraltro ricordato che la rivalità fra le varie scuole oggi è comunque viva: ma anche se la setta gialla è la più potente, di fatto nessuna scuola è scomparsa. Restano ancora i seguaci di Padmasambhava che sono chiamati “gli antichi” rÑiṅ ma pa, per i quali esorcismo e magia hanno ancora un notevole ruolo. Vengono poi i bKa rgyud pa, i cui capiscuola sono il celebre Siddha indiano Nāropā e il lotsāva tibetano Marpa. La scuola si divise in molte sette, le più importanti delle quali sono quella dei ḁBrug pa sistemata specialmente da Nag dbari zam rgyal e divenuta religione di stato nel Bhūtan; quella dei ḁBri guri pa, quella dei Karma pa, che accettò più delle altre molte dottrine degli “antichi” e, si può dire, si innestò con la parte più sana di quelli. Vengono in fine i Saskyapa. La scuola dei bKa’ gdams pa, come si vede, non figura in questa lista: costituitasi quasi in opposizione alla vecchia scuola, al tempo di Rin c’en bzaṅ po e Atísá trapassò di fatto nella riforma di dGe lugs pa. Questi sono gli indirizzi principali in cui si divide ancora il buddhismo nel Tibet: essi hanno quasi completamente fatto scomparire la religione autoctona, sistemata per la prima volta da Gžen rab, nativo del Tibet occidentale. Dei Bon restano seguaci specialmente nel Tibet orientale, mentre nel Tibet occidentale (Guge), dove ricevette le sue prime formulazioni sistematiche, è scomparsa del tutto. Ad ogni modo le dottrine bön, quali oggi ci appaiono, sono molto influenzate dal buddhismo ed hanno strettissimi rapporti con le scuole rÑiṅ pa, in particolare con una setta di queste, quella dei Perfetti (rDsogs c’en). Questo a significare quanto la stessa famiglia del buddhismo tibetano sia divisa in sette, correnti e sottocorrenti, di cui quella dei Gelugpa è solamente una, più nota delle altre per la strumentalizzazione politica attuata dall’attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso, ma non certo la più ortodossa né la più coerente in fatto di osservanza della dottrina. Sarebbe stato un altro intreccio tra interessi mongoli e cinesi, alcuni secoli dopo, a legare i destini della regione tibetana alla Cina imperiale in modo definitivo.
Alla luce di questa breve carrellata dei principali avvenimenti riguardanti il Tibet antico, si può giungere ad un paio di considerazioni conclusive.
Anzitutto l’indiscutibile appartenenza della regione del Tibet/Xizang alla patria cinese in seguito ad un processo di unificazione che ebbe una tappa fondamentale nell’anno 1721. Se i legami tra Tibet e Cina risalgono al VII secolo d.C., quando l’Imperatore tibetano Songtsen Gampo sposò, nel 641, la principessa cinese Wencheng, nipote dell’Imperatore della Cina Taizong di Tang, la definitiva ricomprensione dei territori del Paese delle nevi nella Terra di mezzo sarebbe avvenuta con l’Imperatore Kangxi. Eliminata l’egemonia che la popolazione mongolica degli Dzungar esercitava sul Tibet, l’Imperatore Kangxi poté rivendicare il ruolo di protettore dell’autentico nuovo Dalai Lama, Kelzang Gyatso, che nel 1720 sarebbe stato riconosciuto come settimo Dalai Lama. A questo punto, dopo avere nuovamente insediato le truppe cinesi nella regione, Kangxi decise di stabilire a Lhasa dei rappresentanti imperiali (detti Amban), al fine di prevenire possibili ulteriori pericoli e destabilizzazioni interne all’Impero cinese. Questo fu l’avvio di un tipo completamente nuovo di rapporto tra la Cina e il Tibet, formalizzato nel 1721 con un lungo decreto in cui si affermava che il Tibet apparteneva a tutti gli effetti alla Cina, ed anzi lo si considerava tributario dell’Impero da oltre ottant’anni. Kangxi faceva riferimento ai messaggi intercorsi fra i suoi antenati e le parti in lotta ai tempi della seconda conquista del Tibet da parte di Gu-shri, già prima che i Qing fossero Imperatori della Cina. Da quel momento in poi, l’Imperatore Manciù fu ufficialmente sovrano del Tibet. Questo fatto stabilisce una continuità assoluta nell’appartenenza del Tibet alla Cina, continuità che sarebbe peraltro stata riconosciuta dallo stesso quattordicesimo Dalai Lama oltre due secoli dopo, in seguito alla formazione della Repubblica Popolare Cinese. Dopo l’entrata delle truppe dell’Esercito di Liberazione nei territori del Tibet, un “Accordo in 17 punti” venne concluso tra il Governo popolare centrale e il Governo locale del Tibet e firmato il 23 maggio 1951.
Insomma una storia millenaria e ricca tanto di peripezie politiche quanto di fecondità spirituale e culturale: il Tibet è stato ed è un crocevia di influssi culturali provenienti dalle regioni confinanti, che grazie al legame plurisecolare con Pechino ha potuto e può vedere protetto, tutelato e promosso il suo sterminato e ancestrale patrimonio. Lo sviluppo del Tibet non ha danneggiato la sua cultura tradizionale. La lingua tibetana è preservata. Pur essendo il cinese diffuso in quanto mezzo per promuovere scambi economici e culturali tra i gruppi etnici e le regioni, il tibetano scritto e parlato resta comunque molto diffuso e protetto da specifici regolamenti. Le scuole sono bilingue, ma quelle primarie usano maggiormente il tibetano. La religione è protetta come anche i suoi luoghi sacri. Nessuno è forzato a credere, né a non credere, a nessuna religione; in Tibet, oltre alle tradizionali scuole del Buddhismo Tibetano, sono rappresentati anche il Bon, l’Islam e il Cattolicesimo. Il Tibet ha attualmente 1787 siti per diverse attività religiose, 46000 monaci e 386 Buddha Viventi (tulku); ci sono quattro moschee e 3000 musulmani, e una Chiesa cattolica con 700 fedeli.
di Marco Costa