Il Tibet è stato parte della Cina fin dalla dinastia Yuan, costituita dall’imperatore Kublai Khan nel tredicesimo secolo. Particolarmente evidente fu la sovranità della Cina in Tibet durante la dinastia Qing, ma con la caduta di quest’ultima nel 1912 la Cina visse un periodo di debolezza che permise al tredicesimo Dalai Lama – grazie anche alle aggressioni imperialiste in Tibet degli anni precedenti – di dichiarare una indipendenza mai riconosciuta dal governo centrale.
L’indipendenza tibetana è pertanto un mito; dalla dinastia Yuan il Tibet non è mai stato indipendente. La Cina non ha potuto esercitare attivamente la propria secolare sovranità sulla regione solo per pochi anni dalla fine della dinastia Qing, a causa del turbolento periodo dei signori della guerra e della guerra civile, ma ciononostante il territorio tibetano continuava ad essere considerato parte della Cina. A dimostrazione di ciò va segnalata l’esistenza in seno alla Repubblica di Cina per tutto il periodo che va dal 1912 al 1949 di una «Commissione per gli Affari Tibetani e Mongoli», che aveva appunto il compito di curare l’amministrazione della regione tibetana. Anche Chiang Khai-Shek il 10 Maggio 1943, qualche anno prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, affermò «Il Tibet è parte del territorio cinese… a nessuna nazione straniera è permesso interferire nei nostri affari interni».
Si capisce pertanto che la Liberazione Pacifica del Tibet non fu una «invasione straniera», come definita da alcuni, ma la riappropriazione di un territorio inalienabile della Cina con lo scopo di proteggere lo stesso dalle forze imperialiste e di attuare le riforme sociali. Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, avvenuta nel 1949, il Governo Popolare Centrale notificò alle autorità locali del Tibet di mandare dei delegati a Beijing per negoziare la Liberazione Pacifica in Tibet. Il quattordicesimo Dalai Lama mandò come proprio rappresentante Ngapoi Ngawang Jigme e altri delegati, e il 23 Maggio del 1951 venne firmato l’Accordo dei 17 Punti. Poco dopo, il Dalai Lama assunse il ruolo di vicepresidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
L’Accordo dei 17 Punti, che ottenne il supporto delle persone di tutti i gruppi etnici del Tibet, prevedeva un piano di sviluppo della regione molto pacifico, paziente e graduale. Il Punto 11, infatti, affermava che la riforma in Tibet si sarebbe applicata senza alcuna costrizione da parte del Governo Centrale, fiduciosi che il cambiamento sarebbe stato voluto gradualmente dal popolo tibetano stesso.
Tuttavia, nonostante le classi subalterne del popolo tibetano desiderassero la riforma sociale e democratica che li avrebbe liberati dalla loro condizione di miseria, le classi dominanti si mostrarono contrari all’Accordo dei 17 Punti per paura di perdere per sempre i propri privilegi e organizzarono delle violente ribellioni armate, che culminarono nella ribellione di Lhasa del 10 Marzo 1959 (ribellione che ebbe anche il supporto attivo degli Stati Uniti, che tramite la CIA addestrò dei ribelli tibetani negli anni 1956-1957).
In seguito alla rivolta di Lhasa il Dalai Lama scappò in India e il premier Zhou Enlai, riconoscendo le classi tibetane dominanti come traditrici del proprio paese, dissolse il Governo Tibetano Locale. Il Comitato Preparatorio della Regione Autonoma Tibetana prese il potere del governo locale con il decimo Panchen Lama che agiva come suo presidente e si poterono finalmente attuare le riforme democratiche e sociali per la liberazione delle classi subalterne.
In cosa consiste, pertanto, la cosiddetta Riforma Democratica? Prima del 1959, i tibetani vivevano in un regime teocratico feudale caratterizzato da tre elementi: la combinazione di potere politico e religioso; una oppressione politica brutale; e lo sfruttamento economico dei servi da parte delle classi dominanti.
Le classi dominanti erano costituite da tre categorie: gli ufficiali amministrativi locali, gli aristocratici e i Lama di alto rango (in particolare i Tulku, «Buddha Viventi»). Questi possedevano la totalità dei territori e dei mezzi di produzione, mentre il 90% della popolazione era costituito da servi, chiamati «tralpa» (ovvero chi ara porzioni di terre assegnate a loro dai proprietari terrieri in cambio di corvee) e «duiqoin». In più c’erano i «nangzan», schiavi ereditari, che costituivano il 5% della popolazione ed erano considerati degli «oggetti parlanti». I servi non possedevano alcun mezzo di produzione né libertà personale, considerato che la loro sopravvivenza dipendeva dai proprietari terrieri delle classi dominanti.
Queste ultime poi attuavano una oppressione politica crudele che prevedeva anche delle terribili punizioni corporali che non rispettavano alcun principio dei tanto decantati diritti umani. Nel codice locale tibetano, quando un servo danneggiava gli interessi delle tre classi dominanti, queste ultime potevano «cavargli gli occhi, rompergli le gambe, tagliargli la lingua, amputargli le mani, scagliarli da un dirupo, affogarli o ucciderli altrimenti; queste punizioni sono avvisi agli altri per non fargli seguire il loro esempio».
Quella tibetana, anche nella prima metà del Novecento, era una società stagnante da secoli, in una condizione di estremo isolamento e arretratezza, quasi senza traccia della moderna industria, commercio, scienza, tecnologia, medicina ed educazione. La triste condizione dei tibetani prima del 1959 non è semplice propaganda politica da parte della Cina, ma un fatto storico entrato nelle cronache di quei pochi viaggiatori stranieri che erano riusciti ad entrare in Tibet in quel periodo (citiamo come esempio Edmund Candler, Charles Bell, Alexandra David-Neel).
La Riforma Democratica ha permesso la fine di tutto questo. La teocrazia è cessata, permettendo così la separazione tra potere politico e religioso, proteggendo al contempo la libertà di religione. I mezzi di produzione, che prima erano di esclusiva proprietà dei monasteri, sono potuti tornare nelle mani di tutto il popolo. I privilegi feudali dei monasteri in ambito politico ed economico sono stati aboliti, ma i loro beni sono iniziati ad essere gestiti democraticamente; specifiche commissioni amministrative sono state create nei vari monasteri con il compito di gestirne le risorse secondo i principi di eguaglianza e meritocrazia, e quando le entrate di un monastero non sono state sufficienti a provvedere alle spese basilari, il governo ha concesso dei sussidi spesso generosi.
Tramite una radicale riforma della proprietà territoriale il feudalesimo è stato abolito, rendendo i servi padroni dei propri territori. I terreni dei signori feudali che hanno partecipato nella rivolta armata vennero confiscati, mentre quelli di coloro che non hanno partecipato alla rivolta vennero riscattati. In entrambi i casi, i terreni vennero distribuiti ai servi e agli schiavi, emancipandoli così definitivamente.
La Riforma Democratica ha permesso la liberazione di un milione di schiavi a livello politico, economico e sociale, trasformando radicalmente l’aspetto della società tibetana e inaugurando una nuova era nello sviluppo del Tibet. Essa è stata la più grande riforma sociale nella storia del Tibet, un grande passo in avanti nella storia della civilizzazione umana e nel rispetto dei diritti umani.