L’arte tibetana è intimamente connessa agli aspetti multiformi ed esoterici del tantrismo, introdotto dal Kashmir (assieme allo stile indo-buddhistico) nel sec. VIII, e si esprime mediante una ricca tematica religiosa legata a una rigorosa rappresentazione di immagini (di Buddha e Bodhisattva nel loro duplice aspetto sereno e terrifico) e di simboli, secondo un codice di segni e di colori elaborato sulla conoscenza dei libri segreti (Tantra), la recitazione delle formule esoteriche ( mantra), i percorsi spirituali dei diagrammi mistici ( mandala). Alla formazione di questa straordinaria iconografia religiosa del buddhismo tantrico, del lamaismo e del Bon “riformato”, concorsero, negli sviluppi della pittura e della scultura, apporti estetici dell’India Gupta prima, dei Pala-Sena poi e infine dell’arte Moghul (pervenuti attraverso la feconda mediazione nepalese), della Cina più tardi (per le regioni del Tìbet orient.) e della Serindia (per mezzo della pittura di Khotan), oltre a vivaci impulsi della tradizione locale, nella quale sopravvivevano elementi provenienti da remoti culti e credenze. I grandi stili dell’arte tibetana si svilupparono, dai sec. XI-XII, dalla scuola di Guge nelle regioni occidentale, da quelle formatesi nei grandi complessi monastici del Tibet centrale e più tardi (dal sec. XV) del Tibet orientale. L’esperienza architettonica è essenzialmente di carattere religioso (monasteri e templi entro poderose opere di fortificazione, di cui il Potala a Lhasa è uno degli esempi più conosciuti, oltre a vari tipi di stupa– mc’od-rten – ispirati al modello indiano). Monumenti architettonici edificati dal sec. X-XI al sec. XVII-XVIII, che documentano decorazioni scultoree o pittoriche (affreschi o pitture mobili nel caratteristico tipo di stendardo dipinto, thanka) di vari periodi, sono, nel Tibet occidentale, quelli di Alchi, Lhalung, Tabo, Nako, Tiak, Tholing, Tsparang; nel Tibet centrale, Samada, Gyantse, Iwang, Sakya, Gyang; nelle province orientale di Kham e Amdo ecc. Di eccezionale livello artistico è la ricca tradizione degli oggetti di culto.
Anche lo spettacolo è nel Tibet strettamente legato alla religione, o almeno lo era prima che il Paese entrasse a far parte della Repubblica Popolare Cinese. Il genere più diffuso è il tch’am, una complessa danza rituale che viene eseguita nei cortili dei monasteri e che comprende atti cerimoniali, scenette comiche e soprattutto apparizioni di varie divinità, propizie e no, caratterizzate da enormi mascheroni spesso grotteschi o terrificanti. L’intera azione ricrea in forma simbolica un remoto cerimoniale di sacrificio umano e culmina nello smembramento di una vittima a forma di uomo fatta di pasta. Si tratta probabilmente di un residuo degli antichi riti di Capodanno, ovviamente riveduti e adattati nell’ottica buddhista. Esiste inoltre un teatro drammatico con testi tradotti anche in francese e in inglese, che, rappresentati anch’essi nei cortili dei monasteri, raccontano momenti della vita del Buddha, leggende o episodi storici o svolgono scenette di vita tibetana. I copioni che si conoscono devono essere intesi come canovacci da completare con azioni mimiche, con danze e con atti cerimoniali. Gli attori sono riuniti in compagnie legate a qualche convento o in formazioni itineranti. L’allestimento è semplice e gli elementi scenografici sono indicati solo dal dialogo.