LA STORIA È NELLE PAROLE
Il Tibet è famoso per diverse tradizioni peculiari e uniche al mondo; tra le più caratteristiche c’è quella dei “tulku”, ovvero dei maestri reincarnati. Cos’è? Scopriamolo insieme. Un tulku è una persona che è stata riconosciuta come la reincarnazione di qualche importante maestro o di qualche Bodhisattva. Alcuni di essi sono creduti addirittura essere emanazioni delle più importanti Divinità della tradizione tibetana, come Avalokiteshvara, Amithaba, Tara e Manjushri.
Secondo la stima del tibetologo francese Françoise Pommaret ci sono circa 500 lignaggi di tulku tra Cina, Bhutan, Mongolia, Nepal e India; la maggior parte di essi sono maschi, ma esiste anche qualche raro esempio di lignaggio femminile. Il termine tibetano “tulku” veniva usato inizialmente per riferirsi all’Imperatore che prende una forma umana; successivamente però, con la diffusione del Buddhismo, si associò sempre più al termine sanscrito “nirmanakaya”, parola che indica uno dei Tre Corpi del Buddha, quello dell’emanazione fisica; in cinese per riferirsi ai tulku si usa il termine huófó, che significa “Buddha Vivente”.
Usare però nelle lingue occidentali le espressioni “Living Buddhas” o “Buddha Viventi” può essere fuorviante, dato che in realtà sono davvero pochi i tulku creduti essere dei Buddha in carne ed ossa. La credenza nella reincarnazione è uno dei fondamenti della dottrina buddhista. Nel VI secolo avanti Cristo il Buddha, sotto l’Albero della Bodhi a BodhGaya, raggiunse l’Illuminazione. Secondo la tradizione, riportata nel Canone Pali, in quel momento si ricordò tutte le proprie vite precedenti e riconobbe il modo in cui le azioni compiute in una vita influenzano gli eventi di un’altra. Così dottrine come reincarnazione e karma – che erano comunque già molto diffuse in India – divennero centrali nell’insegnamento del Buddha.
Questi insegnamenti divennero poi parte della prima delle Quattro Nobili Verità: la Verità della Sofferenza. Negli ultimi decenni in Occidente va molto di moda una reinterpretazione moderna del Buddhismo; in quest’ultima, il Buddhismo viene presentato non come una religione, ma come una semplice filosofia di vita priva di dogmi o credenze metafisiche. In questo contesto, autori come Buddhadhasa o Stephen Batchelor hanno negato la dottrina della reincarnazione. Qualcuno si spinge a dire che secondo il Buddha esisteva la rinascita, ma non la reincarnazione, senza spiegare in maniera chiara e concreta la distinzione tra le due. Con ciò questi autori da un lato tentano di distanziarsi dall’Induismo, visto per loro come un fenomeno troppo “religioso”; dall’altro cercano di strizzare un occhio ai gusti degli occidentali moderni che, generalmente fuggiti dalla religione cattolica, tendono per contrasto ad adottare visioni materialistiche e scettiche. Chiaramente questi autori considerano ridicolo – o addirittura completamente contrario alla dottrina buddhista – il fenomeno tibetano dei tulku. In realtà questa visione modernista è priva di fondamento a livello dottrinale. La credenza nella reincarnazione è attestata fin dalle fonti primitive del Buddhismo, come i primi testi in lingua pali, e riaffermata con forza in tutta la tradizione posteriore. D’altronde, se non ci fosse la credenza nella reincarnazione, il Buddhismo si ridurrebbe ad un giochetto psicologico per vivere meglio (il che sarebbe un obiettivo tutto occidentale), piuttosto che una via spirituale trasumanante tendente al raggiungimento di una mèta assoluta, come il Nirvana.
Detto in altri termini, che senso avrebbe voler raggiungere il Nirvana se si crede che dopo la morte non esiste nulla? La stessa negazione dell’esistenza del Sè (anatman) nella dottrina buddhista non inficia assolutamente la credenza nella reincarnazione, perché non è Appendice IV affatto categorico che a reincarnarsi sia un Atman. In altre parole, la tradizione tibetana dei tulku è completamente coerente con la dottrina buddhista, in particolare con quella Mahayana: secondo quest’ultima infatti, i Bodhisattva si reincarnano all’infinito con l’intento compassionevole di portare beneficio agli esseri; persino gli stessi Buddha, invece che estinguersi nel Nirvana, possono continuare a manifestare la propria attività illuminata nel samsara tramite una serie innumerevole di emanazioni, e nulla vieta che alcune di queste emanazioni possano essere ufficialmente riconosciute come tali. Nonostante inizialmente il sistema dei tulku mirava al riconoscimento di grandissimi Bodhisattva o emanazioni di Buddha (in sanscrito nirmanakaya), nel tempo questo sistema divenne sempre più diffuso e si cominciò a riconoscere la maggior parte dei Lama che erano particolarmente influenti in ogni data regione, spesso anche senza che il maestro in questione avesse dimostrato particolari qualità spirituali. Ecco quindi che questo fenomeno, pur essendo coerente con la dottrina mahayana, iniziò a presentare delle gravi problematicità. Idealmente i tulku – secondo la classificazione di Tulku Thondrup – potrebbero essere divisi in tre categorie: le emanazioni di Buddha o di elevatissimi Bodhisattva; le reincarnazioni di grandi Adepti tantrici; le reincarnazioni di Lama virtuosi.
In pratica però non è affatto facile distinguere a quale categoria appartenga ciascun tulku, e a queste tre bisognerebbe aggiungere anche le categorie dei tulku non riconosciuti, dei falsi tulku e dei tulku decaduti dal sentiero. Essendo i tibetani, inoltre, ben consapevoli delle problematicità relative al riconoscimento di un tulku e al fatto che spesso chi viene riconosciuto non è affatto la reincarnazione reale del suo predecessore, è diventata importante la categoria dei “tulku benedetti”: in pratica, si riconosce il fatto che un maestro può non essere l’effettiva reincarnazione del proprio predecessore e pertanto non ne avrà le realizzazioni, ma ciononostante porta avanti la benedizione e le attività connesse al suo titolo. Ci si renderà facilmente conto, però, come questo sistema possa aprire la strada ad abusi di vario genere. Lo stesso presente Dalai Lama, pur essendo secondo alcuni una emanazione di Avalokiteshvara, ha confessato di non credere affatto di essere la reincarnazione dei precedenti Dalai Lama. I tulku più famosi sono il Dalai Lama, il Panchen Lama e il Karmapa. Ques’ultimo fu il primo tulku storicamente riconosciuto, colui che creò questa tradizione, la quale successivamente si diffuse a macchia d’olio in tutte le scuole tibetane. Fu infatti Dusum Khyenpa (1110-1193), il più importante discepolo di Gampopa, a dichiarare che in futuro avrebbe continuato a reincarnarsi per guidare meglio i propri discepoli, e in Karma Pakshi (1204/6- 1283) venne riconosciuta la sua reincarnazione. Il lignaggio dei Karmapa è continuato fino ai giorni nostri, ma pur essendo sicuramente quello più emblematico e probabilmente il più venerato del Tibet, è anche il lignaggio che più di tutti oggigiorno mostra le debolezze insite nel fenomeno dei tulku, considerato che alla data odierna esistono due diciassettesimi Karmapa, entrambi tradizionalmente riconosciuti e intronizzati.
Questa controversia ha portato il lignaggio Karma Kagyu, che precedentemente era quello più gerarchico, a dividersi letteralmente in due fazioni contrapposte. A rendere più problematica la questione è che non solo il riconoscimento dei tulku è ampiamente discrezionale e basato su metodi ritenuti fallaci dagli stessi tibetani, ma che questo fenomeno è andato a mischiarsi in maniera indissolubile alla politica (sopratutto alla politica religiosa, ma non solo) e ai suoi naturali risvolti economici.
I tulku in Tibet acquisirono un potere sempre maggiore, in quanto andarono ad ereditare i beni e l’amministrazione dei propri predecessori, che i tibetani chiamano “Labrang”. Questo a sua volta portava a chiare interferenze nel processo di riconoscimento, che spesso non era più fatto secondo criteri puramente spirituali. Era usuale, per esempio, riconoscere un tulku nell’alta nobiltà o come figlio di un benefattore del monastero. Questo portò ad una evidente degenerazione morale di buona parte degli alti esponenti del Buddhismo Tibetano, degenerazione che viene a varie riprese sottolineata da vari maestri e di cui si trovano molti riferimenti nella letteratura tibetana.
Ecco che una tradizione nata per scopi puramente spirituali e in coerenza con la dottrina mahayana, corrompendosi, andò ad alimentare il feudalesimo tibetano arricchendolo di giustificazioni religiose e sacrali. Nella Repubblica Popolare Cinese, a differenza di quello che molti pensano, i tulku possono venire riconosciuti secondo le procedure tradizionali e possono insegnare liberamente la propria religione, privati però di quel potere politico ed economico che interferiva con il loro ufficio. Ancora oggi vengono estremamente rispettati dai tibetani nella Repubblica Popolare Cinese: per virtù del loro particolare carisma, sono tra i principali punti di riferimento della propria comunità e vengono abitualmente consultati per la risoluzione delle controversie locali.