IL BUDDHISMO E LA LEGGENDA DELLA “SHAMBALA ROSSA” – PRIMA PARTE –

  • by Redazione
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  • 30 Giu 2017
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In pochi sanno che il Buddhismo di scuola tibetana ha avuto diffusione e conserva tuttora seguaci anche all’esterno dei confini della regione cinese del Tibet.

Anzitutto è importante ricordare come questo credo si sia diffuso nella regione mongola, innestandosi già in antichità con le religioni ancestrali locali e con lo sciamanesimo. Già la religione ancestrale mongola considerava l’esistenza di un essere superiore, detto khokh mong Tengher, ovvero l’eterno cielo azzuro, l’essere supremo che dimora in cielo, (Tengher, in mongolo ha infatti il doppio significato di Dio e cielo) che è padre di altri Tengher, dei o, più precisamente spiriti o entità; novantanove in totale, quarantaquattro ad oriente e cinquantacinque ad occidente, benché in alcune preghiere venissero citati altri tre Tengher a settentrione, portando il totale a centodue. Tra i novantanove Tengher tradizionali vi è anche un gruppo speciale di trentatré, al cui vertice vi è quello chiamato Khormusta, che per alcuni studiosi altro non sarebbe che una deformazione di Ahura mazda, Dio supremo degli iranici spesso collegato con l’origine mitologica del fuoco. Gli dei sono spesso riuniti in sottogruppi particolari, come ad esempio i cinque dei venti o i sette del tuono. Tra i tanti dei, uno in particolare è interessante citare Tsagan Ebughen Tengher, ovvero Dio vecchio uomo bianco, che verrà arruolato tra le classiche entità buddiste, anche presente nelle danze rituali Tsam (Cham in tibetano). Questa figura di vecchio saggio patrono del bestiame, può essere letta, quale vero e proprio archetipo culturale della Mongolia. Più tardi, con il sopraggiungere del Buddhismo, alcune figure di quest’ultimo saranno aggiunte al pantheon indigeno, a cominciare da Burghan Tengher, ovvero Buddha, e Bisnu tengher, ovvero Visnù. Quello che è certo, in questo complesso universo politeista, e che l’Eterno Cielo Azzurro è autogenerato, assumendo una statura spirituale nettamente superiore agli altri Tengher che, pertanto, si preferisce definirli entità. È importante notare che, nonostante attualmente il credo ufficiale dei mongoli sia la religione Buddhista tibetana, le vecchie credenze ancestrali sopravvivono e s’intrecciano a quella che viene definita come fede gialla, vista la sua derivazione dalle aree meridionali. Anche gli spiriti degli antenati venivano venerati e tra questi in particolar modo lo spirito di Gengis Khan; inoltre il panteismo ancestrale mongolo dedica una particolare attenzione al culto della natura, rivolgendo la propria devozione alla terra, al fuoco, ai fiumi e specialmente alle montagne. In questo contesto, che assume alcune vicinanze con la tipologia animista di altre culture tradizionali, particolare attenzione occorre dedicare al culto degli Ovöö, cumuli di pietre posti generalmente in luoghi di grande passaggio, che vengono arricchiti da ogni passante con un nuovo sasso o un piccolo oggetto e perfino cibo e danaro o cocci di bottiglie. Il viandante dopo aver deposto il suo dono compie tre giri in senso orario attorno all’Ovöö, prima di proseguire il suo viaggio sugli impervi sentieri di queste terre montane. Il culto forse più importante, per conoscere la funzione degli sciamani, è quello del fuoco che in quanto deità è uno dei più antichi concetti religiosi dei mongoli, come pure di numerose altre popolazioni siberiane, centro-asiatiche ed iraniche. L’adorazione del fuoco oggi, come ai tempi più antichi è chiaramente simboleggiata da una cerimonia che avviene gli ultimi giorni dell’anno lunare, con l’offerta di un osso di pecora e la recitazione di speciali inni ed evocazioni. Ancora oggi il fuoco, il cui culto è stato integrato nel credo buddhista, è ancora vivo persino tra coloro che non seguono nessuna religione, sotto forma di regola sociale, di consuetudine e di superstizione. Lo sciamanesimo, pur non dipendendo dalla religione ancestrale mongola, in quanto può apparire in contesti etnici e religiosi del tutto differenti, si adattò perfettamente a questa, ma resiste, specialmente nelle zone più settentrionali del paese nonostante la completa conversione al Buddhismo lamaista.

Venendo più direttamente alla diffusione del culto tibetano, la tradizione ci tramanda che già Gengis Khan, il grande conquistatore mongolo, si fosse interessato al Buddhismo tibetano. Egli, infatti, nel mezzo del suo crescente potere, che lo avrebbe portato a conquistare il più vasto impero della storia umana, avrebbe inviato una lettera all’abate che a quel tempo si trovava a capo dell’ordine Sakya, sollecitandone la protezione spirituale. In qualsiasi modo, l’imperatore mongolo mostrò nei confronti del popolo tibetano e dei suoi capi religiosi una benevolenza inusuale, solito com’era a dominare il mondo con il pugno di ferro. Verso il 1230 il figlio terzogenito del grande conquistatore Ogoday, divenuto alla morte del padre Gran Khan dei mongoli, sembra avesse avuto l’intenzione di invitare alla sua corte di Kharakhorum, nel cuore del suo impero, Sakya Pandita. Certo è comunque che il figlio di Ogoday, Godan, nel 1244 invitò il religioso tibetano con l’intento di farsi guarire da lui da una pericolosa malattia. Sotto il dominio del Khan Guyuk sarebbero giunti a corte alcuni rappresentanti dell’ordine karmapa, ma nonostante questi episodi, sotto i primi successori di Gengis Khan il clero buddhista non acquisì una posizione realmente egemonica. La situazione non cambierà che sotto l’imperatore Khubilay che nel 1261 convocò in Cina, dove aveva trasferito la sede dell’impero, il nipote di Sakya Pandita, Phagpa, che elesse suo maestro e dal quale si fece conferire le consacrazioni rituali. Tra il Khan ed il religioso tibetano nacquero in seguito alcuni attriti, che vennero però sanati dalla mediazione dell’imperatrice, tanto che Khubilay nominò Phagpa capo supremo del clero, conferendogli il titolo di “Maestro dell’imperatore, Re delle grande e preziosa dottrina, Degnissimo Lama e re della dottrina dei tre paesi”. Il Gran Khan fece inoltre erigere, in quella che diverrà Pechino, una serie di monasteri. Anche i successori di Khubilay continueranno a distribuire favori ai religiosi buddhisti, ma la conversione riguarderà in quel primo tempo solo i khan e parte della loro corte, mentre il popolo continuerà in prevalenza a seguire l’ancestrale credo sciamanico. Nel 1368, l’ultimo imperatore mongolo Toghon Temur fu cacciato dalla sua capitale con tutto l’esercito mongolo, e i nuovi imperatori cinesi non poterono che vedere con diffidenza i culti introdotti dai mongoli.