Il popolo tibetano adora il colore bianco. Nei lunghi e freddi inverni, lo Xizang si trasforma in un soffice ed innevato mondo che abbraccia i laghi montani e le alte vette himalayane.
I tibetani hanno preso il bianco a simbolo di giustizia, gentilezza, nobiltà, purezza, di buon augurio e felicità. Ad esempio la khata, ovvero la sciarpa cerimoniale nel buddismo tibetano simbolo di purezza e di compassione per eccellenza, simboleggia il cuore puro di chi le porta e sono indossate in molte occasioni cerimoniali quali nascite, matrimoni, funerali oppure l’arrivo o la partenza degli ospiti.
Anche i seguaci Buddhisti tibetani hanno una predilezione per il colore bianco che sembra scandire la vita dei fedeli: bandiere bianche e gonpa bianchi scandiscono brillano come gemme dell’austero paesaggio tibetano. In qualche modo ancora oggi questo misticismo e ritualità abbracciano la vita moderna dei tibetani.
Per fare un esempio, allorquando si riceve un ospite, si può offrire loro una hada, per esprimere la loro benevolenza e benedizione; le ragazze appena sposate sono solite cavalcare un cavallo bianco nella speranza di ottenere buona fortuna ed una vita serena. Anche nel momento di maggiore dolore segnato dalla morte, il bianco torna protagonista.
I fedeli tibetani, infatti, nel momento del decesso di un amico caro o di un familiare, disegnano una “via” con le zamba bianche per indicare al defunto la via del paradiso.
Rimanendo in tema, la morte è un elemento fondante della vita monastica di alcuni templi buddisti tibetani e il “viaggio del trapasso” racchiude tradizioni sciamaniche e buddhiste come la “sepoltura celeste”, un antico quanto affascinante rito funerario tibetano praticato ancora oggi in alcuni monasteri dell’altopiano.
L’origine di questo rito è ancora incerta, tuttavia si ritiene possa risalire a più di 2000 anni fa, in epoche pre buddhiste in cui dominavano credenze di tipo sciamanico e animista, quando si credeva che grandi personalità quali guerrieri, sciamani e capi religiosi avessero spiriti provenienti direttamente dal cielo.
In questo rito il dürtro, ovvero una sorta di piattaforma circolare, costituisce il sito in cui si tiene la “sepoltura in cielo”. Questo è circondato da alcuni edifici adiacenti dove nelle loro stanze vengono conservati i capelli dei defunti, e si trova a sua volta non poco distante da un Gompa, ovvero il nome tempio buddhista per eccellenza così chiamato in Tibet, Bhutan e nelle zone himalayane dell’India e del Nepal. A questo Gompa si accede con un impervio percorso che inizia lasciando il kora seguendo un sentiero che si trasforma rapidamente in ripida ascesa.
Qui si svolge lo jhator, questo il nome tibetano della pratica funebre che significa “fare l’elemosina agli uccelli”. Questo è a tutti gli effetti uno dei luoghi più sacri e venerati della religione tibetana, tant’è che risulta più volte recintato e circondato da svolazzanti e colorate bandiere votive, al fine di evitare occhi indiscreti e curiosi obiettivi fotografici.
Ci sono due differenti spiegazioni sull’origine della sepoltura a cielo aperto con qualche studioso che sostiene che l’origine sia veramente autoctona, mentre altri la ritengono proveniente dall’India o dall’Asia Centrale. Comunque sia è generalmente riconosciuto che il suo sviluppo sia avvenuto attraverso due fasi. La prima di queste è il periodo della cosiddetta sepoltura a cielo aperto originaria, quando la gente inconsciamente abbandonava il cadavere in natura. Tra l’XI e il XII secolo, invece, influenzata dalla diffusione delle dottrine Buddhiste, la sepoltura a cielo aperto ha iniziato gradualmente ad impiegare rituali funebri che oggi conosciamo nella normale tradizione buddista.