Forme esposte a Sud, verso la massima luce e il massimo calore del Sole. Tradizionalmente in pietra, argilla, terra battuta e legno. Frutto di una Natura molto particolare e di una Cultura che nei secoli andrà a imparare principalmente dall’India e dalla Cina.
Forme esposte a Sud, verso la massima luce e il massimo calore del Sole. Tradizionalmente in pietra, argilla, terra battuta e legno. Frutto di una Natura molto particolare e di una Cultura che nei secoli andrà a imparare principalmente dall’India e dalla Cina.
Insieme semplice e complessa, l’architettura tradizionale tibetana spesso si adatta – in primis, alla Natura. Attraverso l’inclinazione delle pareti di dieci gradi verso l’interno, a protezione dai terremoti, o dei tetti – piani nelle zone aride e spioventi in quelle più ricche di precipitazioni – e attraverso lo spessore di un metro dei muri per la tenuta termica. Con il magnifico risultato che vediamo oggi.
A cominciare dall’architettura buddhista, inaugurata nel VII secolo dal primo Re del Dharma – Songtsän Gampo – che fa costruire a Lhasa i templi di Jokhang, in antico stile nepalese e indiano, e Ramoche, in stile cinese Han. Un’architettura arricchita successivamente dai Chörtens – cioè, i luoghi spirituali più piccoli (“stupa”), con pareti tondeggianti o quadrate e che prevedono il rito della circumambulazione in senso orario – e dai monasteri. Che, attraverso le loro strutture e persino i colori scelti, raccontano sia le influenze architettoniche secolari, sia l’appartenenza alle diverse concezioni e scuole spirituali.
Come Samye, costruito dal secondo Re del Dharma Trisong Detsen, la cui struttura – fatta da un salone centrale circondato da un muro circolare che contiene altri quattro templi orientati verso i quattro punti cardinali – crea un cerchio sacro (“mandala”). Oppure Gekkar, un altro esempio di architettura precoce, le cui pareti inclinate spingono lo sguardo verso i fregi ai bordi del tetto. E la cui sala centrale illuminata solo da un lucernario è circondata da un percorso al coperto, con ruote della preghiera, che permette la circumambulazione dei pellegrini. Oppure Pelkor, cominciato dal nipote del terzo Re del Dharma Ralpachen e completato nel tempo dalla costruzione accanto del più famoso Kumbum tibetano, contenente ben centootto cappelle.
Senza dimenticare il Potala, l’esempio architettonico più importante. Con rame fuso versato attorno alle fondamenta e muri inclinati spessi tre metri – cinque alla base – per la tenuta sismica: tredici piani costruiti in mille anni, a tremilasettecento metri di altitudine (centodiciassette sulla “Collina Rossa”), e che contengono più di mille stanze.
In quanto alle abitazioni, l’architettura tradizionale – Kham, dal nome della regione storica – può essere ammirata nella Prefettura autonoma di Ganzi. Dove le costruzioni prediligono il legno, usato per le travi orizzontali e le colonne a sostegno del tetto ma anche per creare pareti esterne in stile baita e rivestimenti interni a pannelli. Un tripudio di carpenteria, che include anche le decorazioni e che non dimentica soffitti, pavimenti e divisori delle stanze.
Dicevamo: l’architettura tradizionale tibetana si adatta. Nelle zone con poco terreno coltivabile, le abitazioni – addossate le une alle altre – si arroccano su spuntoni di roccia o si appoggiano sui pendii mentre, in quelle alluvionali, sono contornate di giardini e prati. In mancanza di foreste vicine, i muri sono in argilla impastata e asciugata al Sole o in un misto di argilla e pietra. Con finestre in carta di riso che, nelle case più “ricche” e a più piani, aumentano di dimensione man mano che si sale e che, talvolta, aprono sui caratteristici balconi (“rapsal”) coperti da un tettuccio sporgente di travetti ornamentali.
Le influenze sono tante: il risultato, è unico.