AVETE MAI SENTITO PARLARE DEL “LIBRO DEI MORTI”?

  • by Redazione
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  • 12 Apr 2020
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Il cosiddetto «Libro Tibetano dei Morti» è il testo tibetano più conosciuto in Occidente. Dalla sua pubblicazione in inglese nel 1927 da parte di Evans-Wentz è diventato uno dei grandi classici della letteratura spirituale mondiale ed ha venduto oltre un milione di copie. Ha avuto immensa fortuna in Occidente, probabilmente per l’associazione in un unico titolo di due temi misteriosi e affascinanti: quello del Tibet – che al tempo della pubblicazione suscitava ancora una forte fascinazione romantica – e quello della morte.

Tuttavia la sua fortuna è in gran parte ingiustificata: nell’economia dei testi religiosi tibetani la sua importanza è tutto sommato marginale. Sicuramente la maggior parte dei tibetani non l’ha letto, e molti tibetani verosimilmente non ne hanno neanche mai sentito parlare. Particolarmente problematico è anche il fatto che la traduzione è stata fatta solo di una piccola parte del testo e che anche quest’ultima è stata fraintesa con concezioni teosofiche molto lontane dalle dottrina buddhista tradizionale. Solo recentemente è stato pubblicato il testo nella sua forma integrale (in italiano da Oscar Mondadori). Cercheremo pertanto di porre il testo nel giusto contesto, che è quello del Tantra e dello Dzogchen.
Quello che in Occidente è stato conosciuto come «Libro Tibetano dei Morti» non sono altro che tre capitoli di un testo tibetano noto come «La Grande Liberazione Attraverso l’Udire negli Stati Intermedi», ovvero Bardo Thodol Chenmo (nella traslitterazione Bar-do thos-grol chen-mo). Si tratta di un Terma, ovvero di un «Tesoro Nascosto». I Terma sono dei testi che vennero occultati da Padmasambhava, ovvero Guru Rinpoche, per essere scoperti in epoche successive quando sarebbero stati di maggiore aiuto agli esseri. In questo caso il terton, ovvero lo scopritore di questo tesoro, fu un maestro chiamato Karma Lingpa.
Il Bardo Thodol affonda i propri contenuti teoretici negli insegnamenti di un testo molto importante per la scuola Nyingma, ovvero il Guhyagarbha Tantra. Quest’ultimo appartiene alla classe di Tantra del Maha Yoga e fu compilato dal Re Indrabhuti nel VI secolo. Per essere più precisi, secondo la tradizione, il testo si origina con il Buddha primordiale Samantabhadra (simbolo del dharmakaya), passò a Vajrasattva (simbolo del sambhogakaya) e quest’ultimo lo insegnò in visione al Re Indrabhuti che lo trascrisse. Questo testo venne tradotto dal sanscrito in tibetano per tre volte durante l’VIII secolo: prima da Buddhaguhya e Vairochana, poi da Padmasambhava e infine da Vimalamitra.

Il Guhyagarbha Tantra si basa sull’insegnamento relativo a 100 Divinità pacifiche e irate – chiamate Shitro -, che nella metafisica buddhista sarebbero espressioni di 100 parti del nostro essere (a partire dai cinque elementi e dalle otto coscienze). Il Mandala di queste 100 Divinità – 42 delle quali sono pacifiche e 58 irate – costituisce il fulcro dell’insegnamento del Guhyagarbha e della letteratura che da esso deriva, che ha una sua relativa importanza sopratutto nella scuola Nyingma; il Bardo Thodol è appunto il testo più famoso appartenente a questa letteratura.
Padmasambhava, secondo la tradizione, nascose il Bardo Thodol nel monte Gampodar a Dakpo. In verità il Bardo Thodol è solo una piccola parte di un testo molto più ampio, chiamato «Divinità Pacifiche e Irate: la Liberazione Naturale dell’Intenzione Illuminata», che venne trovato da Karma Lingpa assieme ad un altro terma andato però perduto: «Grande Compassionevole: Divinità del Loto Pacifiche e Irate». Karma Lingpa ritrovò questi testi all’età di 15 anni, nel XIV secolo. Secondo la profezia di Padmasambhava questo insegnamento sarebbe dovuto restare segreto per tre generazioni, e pertanto Karma Lingpa lo insegnò solo a suo figlio Nyinda Chojer e questi al suo discepolo. Fu Gyarawa il primo ad insegnare pubblicamente i tesori di Karma Lingpa e questi ultimi si diffusero in tutto il Tibet e in tutte le scuole. Tuttavia è bene notare che il Bardo Thodol ha una certa importanza solo nella scuola Nyingma; si consideri ad esempio che buona parte delle scuole Sakya e Gelug non accettano neanche l’autenticità dei terma, di cui il testo fa parte.
Passiamo ora ai contenuti del testo. Come già detto la traduzione di Evans-Wents (riconosciuta come pessima da tutti i tibetologi) riguardava solo tre capitoli, quelli dedicati alle istruzioni date dal Lama al morente per guidarlo nel processo della morte e dello stadio intermedio (chiamato appunto bardo) tra la morte e la successiva rinascita. Vengono escluse tutte le istruzioni preliminari e meditative che inseriscono questa pratica nel suo contesto tantrico. Preso nel suo insieme, però, il Bardo Thodol diventa un sistema tantrico meditativo completo, uno dei tanti nel complesso dei sistemi meditativi tibetani. Si presenta un insieme graduale di pratiche da fare anche in vita, non solo nel momento della morte.
Innanzitutto ci sono le cosiddette pratiche preliminari, che si dividono nei «preliminari comuni», che servono ad orientale la mente alla pratica, e in quelli «straordinari». I preliminari comuni implicano la riflessione sulla preziosità della rinascita umana, sull’impermanenza, sull’ineluttabilità del karma e sulle sofferenze del samsara. I preliminari straordinari invece sono pratiche molto impegnative diffuse in varie forme anche nella scuola Kagyu: ognuna di queste pratiche va ripetuta per centomila volte per considerarsi completa. In questo sistema sono la presa di Rifugio, la sadhana di Vajrasattva, l’offerta del Mandala ed il Guru Yoga.
Dopo di ciò seguono delle istruzioni meditative, tipiche dello Dzogchen e della Mahamudra, che servono a riconoscere la natura senza tempo della propria mente. Riconoscendo che i pensieri passati sono privi di tracce, chiari e vuoti; che i pensieri futuri sono non-prodotti e nuovi; che il momento attuale sorge spontaneamente e non è costruito, si scopre così una consapevolezza naturale e radiosa libera dalla presenza di un osservatore e di una cosa osservata. Una consapevolezza vuota e increata, priva di esistenza intrinseca, ma al contempo chiara e radiosa. Questo è lo stato naturale della mente, il rigpa, ed in essenza è la Natura di Buddha.
Successivamente avviene la pratica dello Stadio di Generazione, tipico di tutte le meditazioni tantriche, in cui si pratica la visualizzazione della Divinità e la recitazione del suo mantra. In questo caso le Divinità sono le 100 del Guhyasamaja, e queste si visualizzano in specifici punti del proprio corpo che diventa così un mandala interno microcosmico. Le Divinità pacifiche e irate infatti non sono altro che diversi aspetti del nostro essere, e si medita sul fatto che nel momento in cui la morte avverrà queste si manifesteranno fuori di noi come se fossero esterne.
Si arriva pertanto al fulcro del testo che si concentra sul tema della morte. Inizialmente vengono presentati dei segni e presagi che indicano che la persona è destinata a morire: questi segni, che si dividono in esteriori, interiori e segreti, mostrano l’influenza del folclore e della medicina tradizionale tibetana. Rimandiamo al testo perché non ci è possibile citarli tutti. Secondo il Bardo Thodol è molto importante riconoscere questi segni perché, una volta riconosciuti, sarà proprio dovere praticare dei riti per tentare di allontanare il momento della morte. Se la morte invece non può essere allontanata sarà importante praticare il cosiddetto phowa, ovvero il trasferimento di coscienza. E’ una pratica yogica in cui si forza la coscienza a uscire dal corpo per entrare in una Terra Pura. Riconoscere i segni della morte è importante perché se si facesse questa pratica quando la morte non è certa si forzerebbe la morte stessa commettendo un suicidio, e questo avrebbe come effetto la produzione di molto karma negativo e la conseguente rinascita negli inferni.
I riti per allontanare la morte, descritti nel capitolo successivo, sono molto interessanti per le influenze provenienti dal Bön e dallo Sciamanesimo che essi rivelano. Vengono infatti descritti dei riti magici di riscatto sulla base dei segni di morte che sono stati riscontrati. Inoltre, se la morte è diagnosticata essere causata da forze malvagie, si creerà un effigie in argilla che rappresenti la persona e la si offrirà a questi demoni in cambio della vita del morente.
Dopo aver parlato dei riti di riscatto e del phowa (trasferimento di coscienza) si giunge alla parte più famosa dell’opera, la «Grande Liberazione attraverso l’Udire». E’ qui che avviene la descrizione delle varie fasi del processo della morte e del Bardo, incluse le indicazioni che il Lama deve dare al morto in ciascuna di esse. Innanzitutto il Lama farà la meditazione tantrica dello stadio di Generazione di cui abbiamo già parlato, autovisualizzandosi come Vajrasattva, e guiderà il morto nel processo di dissoluzione dei cinque elementi (aria, acqua, terra, fuoco e spazio), al termine dei quali il morto sperimenterà la Chiara Luce della propria mente, espressione della Natura di Buddha. Se il morto riuscirà a riconoscere questa luminosità come la propria natura non-duale allora raggiungerà l’Illuminazione, in caso contrario entrerà in uno stato di incoscienza da cui emergerà il Bardo.
Il Bardo delle persone ordinarie dura massimo 49 giorni, dopo i quali ciascuno rinascerà secondo il proprio karma in uno dei sei mondi della cosmologia buddhista. Tuttavia nei primi 12 giorni appariranno le 100 Divinità del Guhyasamaja, espressione illuminata dei 100 aspetti del proprio essere, permettendo così alla persona di raggiungere l’Illuminazione nel caso riuscisse a fondersi in loro. Il Lama pertanto guiderà il defunto istruendolo a non avere paura di queste Divinità e della loro luce e riconoscerle come espressione della propria natura; se il morto riuscirà a farlo allora diventerà un Buddha e rinascerà nella Terra Pura della Divinità in questione. Solitamente tuttavia il morto ne sarà spaventato e fuggirà verso il samsara, da cui promana una luce più fioca e accogliente. Il primo giorno si manifesterà il centro del Mandala delle 100 Divinità: il Buddha primordiale Samantabhadra in unione con Samantabhadri, poi Vairochana e la sua consorte. Dal secondo al quinto giorno si manifesteranno i cinque Dhyani Buddha in unione, ciascuno dei quali accompagnato da un Bodhisattva e da una Dakini. Il sesto giorno si manifestano altre quattordici divinità pacifiche. Dopo di che cominceranno a manifestarsi fino al dodicesimo giorno le 58 Divinità terrificanti.
Se il morto non riconoscerà le 100 Divinità come espressioni della propria natura non-duale finirà al cospetto di Yama, il Dio della Morte, molto famoso sopratutto nell’Induismo. Qui il morto potrà guardare in uno specchio le azioni, buone o cattive, commesse in vita. Successivamente Yama – quale Giudice del Regno dei Morti –  decreterà il destino del morto in base al suo karma, portandolo alla rinascita in uno dei sei mondi. Nei casi peggiori la rinascita avverrà negli inferni, fino alla sua purificazione.
E’ interessante sottolineare che la descrizione delle visioni delle Divinità del Bardo, secondo i Lama tibetani odierni, non è universale; in altri termini non riguarda tutti gli esseri umani. Maestri diversi sembrano avere opinioni differenti a riguardo causando qualche controversia e confusione nei praticanti buddhisti occidentali. Personalmente ho sentito dire da un Lama che queste visioni capitano solo a quelli che praticano il Buddhismo Tibetano, da un altro Lama ho addirittura sentito che accadono soltanto a chi ha ricevuto l’iniziazione di Shitro (ovvero delle 100 Divinità) e ne ha fatto la pratica. I non-buddhisti, invece, secondo l’opinione della maggior parte dei Lama odierni probabilmente vedranno le divinità appartenenti alla propria tradizione. In altri termini il Bardo Thodol non possiede un valore universale ed è un testo che non ha alcuna utilità al di fuori del contesto della pratica tantrica – particolarmente della scuola Nyingma – in cui si situa.