È un’opera che descrive tutte le visioni post-mortali corrispondenti a profonde conoscenze dei maestri tibetani, attingendo alla ricca tradizione delle dottrine esoteriche. Per contestualizzare lo spirito di questo testo nella tradizione mistico-spirituale tibetana, va precisato che il libro descrive le esperienze che l’anima cosciente vive ancora dopo la morte, o meglio nell’intervallo di tempo che, secondo la cultura buddhista in genere, intercorre tra la morte e la rinascita.
Questo intervallo si chiama, in tibetano, appunto bardo. Il libro include anche capitoli riguardanti i simboli di morte, i rituali da intraprendere quando la morte si avvicina, o quando essa ormai è avvenuta. Secondo la tradizione rituale locale, il Bardo Thodol viene recitato presso il corpo del defunto (o del morente) in un periodo di tempo dopo la morte in cui si ritiene che possa ancora essere ricettivo, per rammentare la dottrina del vuoto, dell’impermanenza, ed aiutarne lo spirito ad evitare il ciclo di rinascita, avvicinandosi quindi allo stato del nirvana assoluto.
Nel libro si ripercorrono infatti tre fasi nelle quali progressivamente si incammina lo spirito dell’individuo nella condizione di transizione; anzitutto si cerca di favorire lo scioglimento dello spirito nel nirvana. Inoltre si aiuta ad identificare lo spirito con le divinità (in un senso ben differente da come comunemente inteso in Occidente) proprie di questo stadio vitale intermedio, interposto tra l’ingresso nel nirvana o la ricaduta nel ciclo di rinascite.
Di tale piano sono caratteristici i Cinque Buddha spesso raffigurati nei mandala. In definitiva, attraverso i rituali contemplati da questo testo tradizionale, si tenta di evitare la ricaduta nel ciclo di rinascite dell’individuo, e sospingerlo verso la liberazione assoluta.
Fornendo qualche nota storiografica, va segnalato che la prima traduzione italiana direttamente dal tibetano è del 1949 ad opera di Giuseppe Tucci, noto per essere stato un esploratore e probabilmente uno dei più esperti orientalisti italiani del secolo passato. Va ricordato, a scanso di equivoci, che il testo in oggetto è quello universalmente più noto della tradizione buddhista tibetana Nyingmapa, la cui copia originale è conservata presso un monastero buddhista nella città di Darjeeling, in India.
Aprendo una parentesi necessaria ai meno esperti in fatto di tradizione (anzi tradizioni) buddhista, va rammentato che il lignaggio monastico Nyingma o Nyingmapa (più o meno traducibile in lignaggio degli antichi) appartiene al buddhismo Vajrayana nel suo sviluppo in Tibet come buddhismo tibetano ed è il più antico dei quattro principali lignaggi tibetani attualmente esistenti con Kagyüpa, Sakyapa e Gelugpa (questi ultimi conosciuti come berretti gialli, setta a cui appartiene il Dalai Lama).
Come già accennato, questa scuola monastica fa risalire i propri insegnamenti alla prima diffusione del buddhismo in Tibet da parte di Padmasambhava, e dai suoi immediati discepoli che tradussero vari sutra Mahayana, Tantra e Testi del Canone Sanscrito (che però non divennero poi parte del Canone Tibetano).
Attualmente i Nyingmapa sono particolarmente diffusi nel Tibet Orientale ed in altre regioni della Cina, quali il Sichuan occidentale, lo Yunnan nordorientale, ma anche nel Nepal e in Bhutan.