Un curioso parallelismo è stato proposto da diversi studiosi con un testo canonico antico di tutt’altra tradizione, ovvero il Libro dei morti egizio. Tuttavia, tale accostamento risulta abbastanza arduo quando non del tutto improbabile, in quanto tibetani ed egizi hanno una concezione profondamente differente della morte.
Se gli egizi erano convinti che l’anima potesse muoversi verso l’oltretomba solo se il corpo non si fosse materialmente corrotto – e perciò erano soliti mummificare i corpi dei Faraoni e degli alti dignitari – nel buddhismo tibetano, all’opposto, il cadavere non è nemmeno inumato a causa del terreno roccioso, è anzi bruciato o fatto a pezzi e abbandonato sulle alture affinché gli uccelli e la natura se ne nutrano.
Si abbandona la materia alla materia, affinché per l’anima cominci una vita nuova, superiore. Il testo appartiene certamente al buddhismo tantrico, ma raccoglie e compendia concetti e credenze già diffuse in India nel II° sec. (nel buddhismo Hinayana e Mahayana).
C’è chi fa risalire la sua stesura al 1300 d.C., ma esistono fonti precedenti. Come descritto, il Bardo Thodol è attribuito a Padmasambhava, un taumaturgo del VIII sec. d.C., uno dei 48 mitici asceti dotati di facoltà straordinarie, maestro di Tantra, considerato uno dei fondatori storici del buddhismo tibetano e venerato anche come secondo Buddha.
È una figura leggendaria creata dal fervore religioso dell’epoca, e si dice che viaggiò come missionario in Tibet per introdurvi il buddhismo, quando il paese era ancora dominato dai culti bon, integrando così il buddhismo con la religione tibetana dei demoni, che personificavano le energie naturali.
Ancor oggi, nell’Himalaya, egli è venerato col nome di Guru Rimpoche, che significa maestro prezioso. Si dice che egli abbia lasciato delle dottrine segrete (o tesori segreti) nascondendole sotto terra, in caverne, rocce o nei pilastri dei templi, per difenderle da razzie o distruzioni. Secondo la leggenda, queste dottrine sarebbero state ritrovate quando i tempi fossero maturi per comprenderle.
Ci sono perciò i gter-ston (scopritori di tesori) che riescono a trovarle grazie a sogni o visioni di grande esattezza, una credenza che esiste solo in Tibet. I testi ritrovati sono stati scritti in tibetano o nella lingua sacra e misteriosa delle Daini, gli angeli femminili. Inoltre, il testo sacro dice che l’uomo nasce a causa dell’ignoranza, non è consapevole della condizione originale, per questo la coscienza crea una visione dualistica e illusoria in cui l’oggetto è distinto dal soggetto, appaiono i 5 sensi e le 6 passioni, nasce il corpo collegato a piacere e dolore: nell’alternarsi ininterrotto di queste visioni ha inizio la trasmigrazione (Samara, la cosiddetta visione relativa o condizionata). Quando si esce dalla ruota delle vite si può avere, invece, la visione assoluta. Viene definito che ciò che solitamente chiamiamo vita terrena, per i tibetani, è solamente un’illusione mentale.
Noi sogniamo e il nostro sogno ci sembra realtà, ingannevolmente; la vita terrena è un sogno da cui possiamo svegliarci, comprendendo di colpo la natura illusoria di ciò che crediamo illusoriamente vero.
La maggior parte degli uomini non ne matura consapevolezza, rimanendo annebbiata dalle vacuità materiali, e solo il santo ha avuto l’esperienza del risveglio, ha sperimentato una realtà più profonda, dove la sua coscienza è diventata pura luce, essendo appunto quella del risvegliato, dell’illuminato, una condizione psicologicomorale privilegiata ma non certamente esclusiva o soprannaturale.
Ma chi è immerso profondamente nel sogno della vita, stenta a credere che la realtà sia illusoria e potrebbe non svegliarsi mai da questo sempiterno abbaglio psicologico.
Rimane così profondamente addormentato, tanto che la sua coscienza passa da un’esistenza ad un’altra come si passa di sogno in sogno, passivamente. I sogni del mondo sono proiezioni mentali disposte lungo fasce vibrazionali, anche se apparentemente dotate di grado diverso di realtà, ovvero di coscienza.
Solo chi si sveglia da ogni sogno esce da tutti i mondi illusori, umani, demoniaci o angelici, e se ne libera vedendoli come proiezioni offuscate di una realtà più grande, che dialetticamente e contraddittoriamente potrebbe essere definita solo come continuità dell’impermanenza.
La coscienza oscurata origina azioni e pensieri virtuali, proiezioni mentali create dagli istinti e dalle passioni, in cui si accumulano azioni positive e negative che diventeranno cause di kahrma differenziati, cioè produrranno altri sogni, altre vite, in modo consequenziale.
Secondo questa visione, il kahrma è l’azione che perdura e condiziona altri destini, creando il passaggio da una vita all’altra, da un’apparenza all’altra. Infatti, le visioni kahrmiche sono originate da 6 passioni prevalenti: ira, avarizia, ignoranza, orgoglio, gelosia ed egoismo, e tutte queste passioni comprovano la finitudine e la penuria della condizione umana.
Questa lettura, che certamente può apparire tanto ostica nei suoi concetti quanto difficoltosa nelle sue suggestioni linguistiche, tuttavia risulta essere di straordinaria importanza per comprendere la cultura religiosa del Tibet.
Indubbiamente riesce a scavare nella coscienza, nelle credenze consolidate, tracciando un collegamento diretto tra argomentazioni psicologiche e sensibilità mistiche.
Introduce a una visione della realtà che ci informa non solo sul Tibet ma anche sulla condizione dell’essere, su aspetti sconosciuti del nostro io, che ad un tratto non appare più solido e sicuro, riuscendo a scalfire ogni compattezza materialistico-individualistica tipiche della modernità occidentale.