Pittura su muri e tessuti (“thangka”). Sculture in bronzo, argilla, stucco, legno e persino burro di Yak (“torma”). Oggetti rituali e gioielli, mandala di sabbia e tappeti, strumenti musicali e danza, poesia e teatro. Senza dimenticare l’architettura tradizionale tibetana, della quale abbiamo parlato di recente.
Come in altre Culture, e anche se il Cinema è ancora poco conosciuto, le sette Arti sono tutte presenti. E come in altre Culture (la nostra compresa), molte delle opere che oggi ammiriamo nascono grazie al mecenatismo e all’artigianato religioso ma, soprattutto, alle figure – espressione del governo secolare o religioso – che nei secoli le commissionano. Figure che s’ispirano a vicenda, dando così vita alla cosiddetta “Arte himalayana” espressa in Nepal, nel Kashmir, nel Bhutan, nella regione indiana del Ladakh, nel nord del Myanmar (Burma) e in alcune parti della Mongolia e della Cina.
Le due principali influenze vedranno un vero spartiacque nel XII secolo. Quando il Buddhismo indiano, fino a quel momento “imperante” nelle forme e nelle iconografie tibetane, declina per fare posto all’arte buddhista del Nepal e soprattutto della Cina. Dagli sfondi paesaggistici per la realizzazione dei thangka, adottati nel XIV secolo dalla pittura cinese, agli stili ornamentali che nel XVII secolo diventeranno predominanti. Il tutto, con una naturale evoluzione anche delle diverse tecniche – da quella tibetana in gouache su cottone, che si appoggia su un disegno sottostante, alla cinese “Kesi”, fiorita tra l’XI e il XII secolo per la pittura degli arazzi sulla seta.
Nella scultura, a dominare è il bronzo: le opere in metalli preziosi come l’oro e l’argento sono molto rare – così come quelle in legno, preservato per la costruzione delle abitazioni. E questo per via della religione precoce Bon, che considera “immorale” l’estrazione dell’oro – tant’è che, oltre al bronzo, diverse sculture tibetane vengono realizzate in terra battuta e argilla smaltata, con un interno cavo riempito di paglia. In quanto ai colori, le tecniche vanno dagli intarsi e le dorature parziali alle vernici laccate e alle cere, con l’aggiunta di miscele metalliche nelle quali – a volte – vengono inseriti dei gioielli.
Tornando alle influenze, il Tibet assimila la tecnica della xilografia inventata in Cina nel IX secolo. Che applica sia ai testi sulla carta, sia alle immagini sui tessuti – a cominciare dalle coloratissime bandiere di preghiera. Separando accuratamente i “compiti”, nel senso che testi e disegni originali sono curati dai monaci mentre la realizzazione dell’opera e dei successivi esemplari è affidata agli artigiani laici esterni ai monasteri. Per quando riguarda le pagode, nonostante il modello cinese sia molto forte, il Tibet trarrà ispirazione da quello nepalese precedente – la cosiddetta architettura Newar o Newa, nata nella valle del Katmandu, e che vedrà molti dei suoi migliori esponenti lavorare nel Tibet. L’oggettistica rituale risente della forte influenza mongola della dinastia fondata dal Kublai Khan. Dinastia che, una volta conquistato il Tibet, per due secoli finanzia con oro, argento e seta il lavoro artistico dei monaci – vagliando però ogni pezzo in termini di “bontà dell’iconografia”. Mentre musica e danza, profondamente legate alla spiritualità locale e che seguono l’evoluzione nel tempo del Buddhismo, si sviluppano come un modo caratteristico di raccontare storie e leggende, esprimere emozioni e perseguire l’armonia interiore secondo gli insegnamenti. Motivo per il quale ognuno dei tanti festival tibetani di musica o danza – senza dimenticare il teatro – è molto più di quello che noi usiamo chiamare “spettacolo”.
Qualche volta scontri, per di più incontri. Che, pur nella “grande casa” himalayana, rendono l’Arte tibetana così particolare da essere una delle più collezionate al mondo.