Tornando al testo, gli eventi del trapasso e le esperienze del dopo morte — che vanno dalla reincarnazione alla liberazione totale, detta appunto nirvana — sono narrati in modo suggestivo, ma anche con seria e profonda competenza, riuscendo a portare il lettore ad un livello di lettura profondo e trascinante, aprendo scorci intellettuali certamente impervi ma sicuramente meditativi agli occhi dell’osservatore occidentale.
Dal momento che esperienza di vita, conoscenza della realtà e perfezione intellettuale costituiscono la base dottrinaria degli stati trascendenti, si può definire questo testo come un libro di vita, ovvero un libro sul significato della vita e un’ottima guida che apre le porte della trascendenza.
La morte appare qui in una luce completamente diversa; anzi si può affermare che appare completamente illuminata (Buddha significa proprio l’illuminato) nel senso autentico del termine; per cui l’abituale interpretazione occidentale della morte come estinzione della vita viene non solo messa in discussione, ma addirittura confutata e demolita.
Quest’opera sorprende il lettore per le sue estese rappresentazioni, completamente nuove, che attingono ai testi originali di diversi libri funerari del lamaismo ma anche dell’antica religione tibetana bon. Le molte pagine di questo testo religioso, vengono arricchite con minuziose descrizioni delle iniziazioni del rituale funebre, illustrando la via tibetana del buddhismo attraverso il bar-dò, con tutti i suoi simboli e tutte le sue visioni, in chiave psicologica, e la mette a confronto con stati, atteggiamenti e manifestazioni della coscienza.
Poiché II Libro tibetano dei morti descrive simboli archetipici, diversi interpreti occidentali non hanno riscontrato difficoltà a metterli in relazione con alcune teorie psicanalitiche freudiane e con i concetti di Carl Gustav Jung, a proposito di modello archetipico e inconscio. In questo testo, infatti, anima e coscienza non sono che un’unica e transitoria corporeità. Come ebbe modo di affermare lo studioso buddhista francese Matthieu Ricard, «Il pensiero della morte è costantemente presente al praticante tibetano.
Ma, questo pensiero lungi dall’essere triste o morboso, è un incitamento a utilizzare ogni momento dell’esistenza per realizzare la trasformazione interiore, a non sprecare un solo istante della nostra preziosa vita». Il buddhismo insegna a perdere i radicamenti con la materia, il desiderio, il potere; insegna nella sua generalità (non certamente solo tibetana) ad assumere come preliminare e fondativo il concetto di transitorietà ed impermanenza dell’essere.
In questa visione, con la morte l’individuo arriva all’ultimo radicamento, all’ultimo passaggio in questo tempo. La morte non può quindi che essere vista come un bene necessario, perché con essa si può sperare di uscire dalla catena delle esistenze terrene, pur sempre finite ed oggetto di limitazioni, egoismo, attaccamento materiale, schiavitù dei desideri.
Secondo il buddhismo, la dottrina della consapevolezza (costituendosi appunto come illuminazione) aiuta ad avere una morte serena e prepara ad essa per tutta la vita. Date queste premesse, la morte è una tappa dell’essere, una semplice transizione (Bar-do), tappa tanto necessaria quanto foriera di nuova speranza verso una rinascita materiale o immateriale. Ci sono molti Bar-di, ovvero situazioni intermedie, ponti; anche il passare dalla veglia al sonno o dal sonno al sogno è considerato – a titolo di esempio – un Bar-do. Il quesito esistenziale a cui cerca di offrire una soluzione questo testo potrebbe essere il seguente: come posso attraversare il passaggio della morte senza angoscia, secondo uno stato di fiducia, serenità ed consapevole accettazione? Secondo la tradizione tibetana, e secondo la tradizione rituale, si ritiene che recitare questo testo aiuti il passo che porta l’individuo fuori da questa vita e verso la liberazione totale dal ciclo delle rinascite.