Nei giorni scorsi ci siamo addentrati a parlare dei cosiddetti “mantra e mulini della preghiera” tibetani. Ma questa pratica, nel concreto, in cosa consiste? Vediamo insieme di approfondire ciò che, senza dubbio, è una delle pratica più diffusa nel buddhismo lamaista.
Sugli altopiani la parola “mantra” indica di fatto delle vere e proprie formule sacre dal potere quasi magico. Per i Tibetani un mantra autentico non può essere che in sanscrito. Man significa “spirito” e tra “proteggere”. Sono formule costituite da parole o da sillabe, con o senza senso, in relazione con un rituale e una divinità; esse vengono recitate il massimo numero di volte possibile allo scopo di accumulare meriti e di ottenere la purificazione dei propri Karma negativi, una protezione, una guarigione, una realizzazione spirituale qualunque o anche prosperità o progenie.
Per illustrare l’importanza della fede nella recita dei mantra, una leggenda narra di un devoto che importunava un maestro per ottenere a ogni costo delle informazioni e che comprese male la frase con cui era stato rimandato (“vattene”); egli la meditò a lungo e la ripeté come un mantra e ne ottenne grandi poteri. La recita dei mantra può essere effettiva o essere operata con mezzi meccanici, particolarità questa tipica del buddhismo lamaista, grazie ai mulini da preghiera, delle ruote girate a mano sulle quali sono scritti dei mantra. Ne esistono diversi, ma tutti presentano forma cilindrica posti su degli assi verticali che i pellegrini fanno girare mentre compiono il giro dei luoghi santi. Altri sono azionati dall’acqua o agitati dal vento (bandiere di preghiera o rlung rta): secondo i tibetani le invocazioni a contatto con l’aria si disperdono nello spazio per il bene degli esseri.
Ma quali sono le preghiere fondamentali? Fra i mantra più popolari occorre citare quello del buddha Tchenrezi (“Om mani pad me hum”) che deve essere recitato meditando la Grande Compassione, quello del buddha di aspetto femminile Deulma – Tara in sanscrito (“Om tare tuttaré turé svaha”), che protegge dagli otto pericoli, o quello dell’essenza della perfezione della Sapienza (“Om gaté gatè paragaté parasamgaté bodhi svaha”), che evoca il risveglio di coloro che hanno “raggiunto l’altra riva”.
I Tibetani sono viaggiatori impenitenti e i pellegrinaggi rimangono sempre delle fonti molto popolari di meriti, sia nei luoghi illustrati dalle imprese del Buddha come Bodhgaya o Lumbini, o anche sul Jo-khang di Lhasa o il monte Kailash. Il culto delle reliquie, che ha inizio in India fin dalla morte del Buddha (e non è l’appannaggio del buddhismo tibetano), è accompagnato da circumambulazioni che consistono nel fare il giro dell’oggetto venerato alla sua destra, nel senso del cammino apparente del sole intorno alla terra. La stessa cosa vale per l’uso del “cordone di protezione” precedentemente benedetto e che aiuta a premunirsi contro i pericoli.
Esistono ancora molte altre pratiche pittoresche o profonde, ma ce n’è una, semplicissima, raccomandata a tutti coloro che nel Tibet o altrove professano la dottrina del Buddha: evitare, almeno, di nuocere a ogni essere. Chiunque esso sia.