La pittura tibetana si può far risalire al VII secolo d.C. quando il Buddhismo, insieme alle sue arti, fu introdotto per la prima volta in Tibet proveniente dalle confinanti culture dell’India, Nepal, Cina e Asia Centrale. Tutt’oggi vi sono poche espressioni di arte tibetana prima del VII secolo e gli esemplari più antichi che ci sono pervenuti hanno talmente risentito dell’influenza con le tradizioni artistiche limitrofe che è oggettivamente difficile ritrovare in essi elementi pre-buddhisti, tant’è che la letteratura è ancora oggi divisa se ritenere veritiera l’ipotesi che una precedente tradizione indigena sia realmente esistita.
Posto ciò, la straordinaria e spettacolare pittura tibetana si é espressa attraverso tre canali principali inesorabilmente legati ai fini e alle pratiche del Buddhismo: i manoscritti miniati, la pittura murale e la pittura su stoffa (thang-ka, di cui abbiamo già parlato in un precedente post).
Il fine di queste opere è facilmente deducibile, ovvero fornire ai laici, persone spesso analfabete, descrizioni pittoriche della dottrina del Buddhismo. I ritratti servivano come testimonianze storiche e, in particolar modo prima del XV secolo, hanno incoraggiato un forte spirito settario nonché propagandistico, immortalando alcuni prelati ricchi di carisma ed il loro operato spirituale. Le immagini, quando rappresentate con sfarzo, riflettevano l’opulenza e lo stato sociale del loro mecenate il quale, commissionandone la realizzazione, acquisiva pubblicamente merito religioso.
Alle immagini ci si prostrava e si supplicava al fine di ottenere un aiuto in battaglia, nel commercio, nelle questioni di cuore e le opere d’arte, insieme con le divinità che in esse risiedevano, condizionavano tutti gli aspetti della passione umana. Facile quindi ipotizzare quanto i monasteri esercitassero una enorme influenza su questa arte, dato che proprio essi ne erano i mecenati più importanti. All’epoca non era inusuale che un prelato, per conto del proprio monastero, specificava il soggetto che l’opera d’arte doveva rappresentare e si assicurava che il pittore seguisse le norme iconografiche, iconometriche e i precetti conformi al rituale.
All’interno del panorama pittorico tibetano tra li più spettacolari ed interessanti vi sono le miniature dei manoscritti. Queste a volte illustrano i temi di un testo religioso ma la loro iconografia spesso presentava legami con essi, bensì servivano semplicemente a dare più forza al manoscritto e concedere più merito religioso ai suoi mecenati. tuttavia tra le più affascinanti eredità dell’arte buddhista vi é il Màndala, parola che può essere tradotta come “assemblea sacra”.
Anche se gli artisti, sia scultori che pittori, hanno di frequente interpretato il màndala come un “cerchio”, esso é anche stato reso nella tradizione con la forma di un semicerchio, di un angolo, un triangolo, un tempio e persino col corpo umano. Nella sua forma più diffusa il màndala appare come una serie di cerchi concentrici dove al proprio interno troviamo divinità collocate in una struttura quadrata con quattro elaborati cancelli, per questo il mandala veniva descritto come un palazzo o un tempio a quattro lati. A prescindere dal numero delle divinità in un màndala, queste sono sempre disposte in modo simmetrico, a contrassegnare i quattro punti cardinali, quelli intermedi e, a volte, anche il nadir e lo zenit. Non solo la forma é cruciale per il màndala, ma anche il colore. l quadranti del palazzo-màndala sono divisi in modo tipico in triangoli isosceli di colori diversi, quattro dei seguenti cinque: bianco, giallo, rosso, verde e blu scuro. Ogni colore é collegato con una delle cinque famiglie di divinità, ognuna di queste governate da un Buddha celeste: Varocana (bianco), Aksobhya (blu), Amithaba (rosso), Ratnasambhava (giallo), a Amoghasiddhi (verde).
Ogni colore é anche associato con una delle cinque afflizioni della personalità umana: confusione, orgoglio, invidia, odio e desiderio.
La divinità centrale può apparire pacata, ma facendo attenzione, si può notare che la sua espressione non è del tutto serena. Questo perché le divinità irate suggeriscono invece l’imponente lotta che implica il superamento della propria alienazione. Esse danno corpo a tutte le intime angosce che oscurano i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni e che vietano il conseguimento dell’ideale buddhista della totale illuminazione.