I simboli nella cultura tibetana sono validi tanto nella loro funzione di augurio quanto in quella di presagio. Rimane da chiarire un punto, ovvero quello inerente ad una possibile interpretazione superstiziosa di tali simboli; come sarebbe possibile coniugare tale atteggiamento scaramantico o magico con gli insegnamenti buddhisti sul karma?
In effetti, nella tradizione buddhista affermatasi in Tibet si ha avuto il recupero di superstizioni preesistenti, sia di origine sciamanica che ereditati dall’antica religione Bön. Si è già ricordato in molteplici passaggi quanto questa inclinazione cozzi abbastanza nettamente con fondamentali concetti buddhisti quali la vacuità e l’impermanenza.
Tuttavia, la consuetudine dell’utilizzo di tali simboli può avere una qualche compatibilità con il concetto del karma. Abbiamo proposto qualche considerazione analoga a proposito della ritualità legata al Bardo Todol, noto nei paesi occidentali come Libro tibetano dei morti, che è un testo classico del Buddhismo tibetano.
Per karma si intendono gli atti medianti i quali, per la legge generale di causa ed effetto, un individuo predispone e genera il proprio destino futuro. Premesso che si tratta di un principio riguardante l’individuo, la coscienza ed il comportamento – senza l’intervento di alcuna entità superiore – questa legge non prevede nel suo processo alcuna eccezione né deroga. La simbologia si concilia con il karma, senza apparente contraddizione, poiché la conoscenza dello schema fondamentale della realtà, sulla quale ogni consuetudine si sedimenta, deve tenere conto del karma.
Si tratta di comprendere il karma, senza un approccio schematico o meccanicistico. Utilizzare simboli ed eseguire rituali non significa affatto rifugiarsi in un orizzonte irrazionale, di primitiva superstizione.
All’opposto, quello che viene proposto è un atteggiamento di tipo energetico che ricade sulle forze e sulle condizioni presenti, nel quale, tuttavia, la sensibilità non è assente. Mediante tali auspici, nella loro semplicità, si ha occasione di mobilitare forze, spirituali e soprattutto psicologiche, atte a favorire un dato evento, attraverso una maggiore predisposizione individuale all’evento stesso di cui si desidera la realizzazione.
Date queste considerazioni iniziali, vale la pena di dedicarsi ad un particolare gruppo di simboli diffusi nella cultura tibetana, gli aṣṭamaṃgala, conosciuti in Occidente come gli Otto Simboli di Buon Auspicio.
Gli aṣṭamaṃgala traggono la loro prima origine dal mondo culturale indiano, dove gruppi di oggetti simbolici venivano associati alla figura del sovrano e alla sua regalità. Nel Buddhismo sono associati a diverse qualità e principi, e sono di comune utilizzo – pur con alcune variazioni grafiche e con un numero sequenziale progressivo differente – nella regione del Tibet- Xizang, nel resto del mondo buddhista cinese, in Nepal ed in Mongolia.
È frequente notare come questi elementi ornino tanto gli edifici religiosi quanto le abitazioni private, decorino i mobili, gli oggetti artigianali ed anche il vestiario. Alcuni scorgono, suggestivamente, anche negli orizzonti formati dalle catene montuose himalayane questi simboli.
Gli Otto Simboli di Buon Auspicio, chiamati anche Otto Preziosi Simboli, costituiscono uno dei più antichi e conosciuti gruppi di simboli della cultura tibetana. Sono presenti già a partire dai testi canonici del Buddhismo indiano, cioè nei testi redatti in lingua pali e in sanscrito. Si tratta di oggetti, animali o piante che servivano da oggetti rituali o che comunque venivano identificati come segni di prestigio.
Possono inoltre decorare muri e travi, il lati dei troni e molti altri oggetti sia di uso religioso che profano. Vengono talvolta tracciati sul terreno con polvere bianca quando è previsto il passaggio di qualche importante personalità religiosa o civile