IL SIMBOLISMO DEL BUDDHISMO TIBETANO

  • by Redazione
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  • 09 Giu 2017
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Oro, animali, colori e molto altro. La simbologia buddhista è ricca e variegata. Ma quali sono le origini di questo particolare e suggestivo simbolismo molto diverso da quello che possiamo trovare in altre tradizioni? Oggi dedicheremo alcuni articoli per meglio approfondire questo argomento. Per prima cosa, finiamo il Buddhismo Tibetano.

Il Lamaismo, è un diretto “dipendente” del cosiddetto Buddhismo Vajrayāna, chiamato in italiano come Buddhismo del veicolo adamantino o Buddhismo del veicolo del diamante.

Nonostante al suo interno il buddhismo tibetano presenti numerose correnti e scuole, affrontarle una per una sarebbe troppo complicato, per questa ragione ci dedicheremo al Buddhismo tibetano nella sua totalità e generalità, in particolare dedicandoci alla loro tradizione iconografica, essendo questo un elemento di fondamentale importanza nella comprensione della cultura tibetana passata e presente.

Iniziando il nostro viaggio all’interno del simbolismo religioso tibetano, va premesso che i simboli comuni del Buddhismo tibetano raffigurano ed esprimono generalmente in forma sintetica determinati aspetti della realtà esteriore ed interiore, in funzione di influenzare, orientare la realtà futura all’interno del concetto di interdipendenza delle cose esistenti. Questa interdipendenza viene poi rispecchiata anche nel lessico. Infatti per rappresentare in forma fonetica questi simboli, vengono utilizzate specifiche parole. Le più comuni sono tak (o rtags, che significa augurio, segno o indicazione), tsenma (o mtshan-ma, ovvero segno distintivo) e, soprattutto, tendrel (o rten-‘brel), che si può riferire ad una gamma di significati abbastanza ampia nel campo dell’iconografia religiosa. Quest’ultimo termine è interessante da analizzare. Formato da ten, che significa supporto, e da drel, dipendenza, sottomissione a determinate condizioni esteriori, rimanda immediatamente al concetto che tutti i fenomeni sono in relazione e dipendenti gli uni dagli altri, ne consegue che nulla esiste in modo indipendente da se stesso,  riassumendo così un concetto caro alla filosofia tibetana: la vacuità di esistenza inerente (in tibetano śūnyatā),

Secondo il buddhismo, infatti, chiunque comprenda, assimili e viva totalmente il vuoto impermanente delle cose e dei fenomeni, nonché riesca a cogliere il loro carattere condizionato, comprenderà la realtà nel suo senso più autentico, oltrepassando quella patina di illusorietà e transitorietà connessa ad ogni fenomeno. Con l’estinzione dell’illusione e dei concetti erronei, apparenti, si compie anche il primo passo in vista della cessazione della sofferenza. Non bisogna quindi stupirsi se, in un contesto culturale buddhista come quello tibetano, un simbolo che richiami la vacuità, il vuoto e il nulla sia considerato come sommamente favorevole. Da sottolineare inoltre  come l’espressione tendrel non si riduce ad un mero tecnicismo filosofico, al contrario può essere impiegato nel linguaggio comune ad indicare una concatenazione di circostanze favorevoli, il segno di una fortuna imminente, un presagio favorevole e molto altro. Lo si sente infatti utilizzare in relazione ad atti o eventi specifici, ad oggetti, ad immagini o forme di espressione più adeguate di altre per designare condizioni generatrici di un risultato auspicato, o ancora per rappresentare tali condizioni o indicarle con maggiore chiarezza. Secondo un’interpretazione più estesa, ogni fenomeno – colori, forme, suoni, movimenti, qualità olfattive, gustative e tattili – può essere considerato un tendrel, questo perché tutto può essere ricondotto ai concetti di interdipendenza e vacuità.

Ciò vale in modo particolare per tutti quegli attributi che sono riconducibili agli organi sensoriali di percezione. In questo orizzonte, i simboli assolvono ad una funzione filosoficamente fondamentale, quella dell’iconicità, ovvero la proprietà di raffigurare visivamente e veicolare significati, distillandone il senso più profondo ed ideale. Nella cultura tibetana i simboli vengono tradizionalmente utilizzati come offerta ornamentale in occasione di eventi importanti come un matrimonio, una nascita, un arrivo o una partenza, allo scopo di indurre e produrre un effetto di suggestione positiva. Un tendrel può avere quindi un duplice significato: può essere considerato come un simbolo, se si guarda all’effetto auspicato, o come un presagio, quando ci si riferisce ad una causa o ad una circostanza concomitante che si manifesta nel presente e che si dovrà mettere in relazione con un effetto futuro. Ma come affrontare questi simboli quando ci troviamo dinanzi ad una interpretazione superstiziosa? Come integrare la naturale superstizione dell’uomo con gli insegnamenti del karma? Nel concreto, la letteratura è unanime nel considerare che nella tradizione buddhista affermatasi nello Xizang si è assistito ad un recupero di superstizioni preesistenti, sia di origine sciamanica che ereditati dall’antica religione Bön, cozzando nettamente con i basilari concetti buddhisti. Tuttavia, la consuetudine dell’utilizzo di tali simboli può avere una qualche compatibilità con il concetto del karma. Abbiamo già affrontato un simile discorso del precedente articolo dedicato al Bardo Todol, noto nei paesi occidentali come Libro tibetano dei morti, uno dei classici del Buddhismo tibetano.

Partiamo con la definizione di karma. Per karma si intendono gli atti medianti i quali, per la legge generale di causa ed effetto, un individuo predispone e genera il proprio destino futuro. Premesso che si tratta di un principio riguardante la coscienza ed il comportamento dell’individuo senza l’intervento di alcun “deus exmachina” questa legge non prevede nel suo processo alcuna eccezione né deroga. La simbologia si concilia con il karma, senza contraddizione, poiché la conoscenza dello schema fondamentale della realtà, sulla quale ogni consuetudine si sedimenta, deve tenere conto del karma. Si tratta di comprendere il karma, senza un approccio schematico o meccanicistico. Utilizzare simboli ed eseguire rituali non significa affatto rifugiarsi in un orizzonte irrazionale, di primitiva superstizione. All’opposto, quello che viene proposto è un atteggiamento di tipo energetico che ricade sulle forze e sulle condizioni presenti, nel quale, tuttavia, la sensibilità non è assente. Mediante tali auspici, nella loro semplicità, si ha occasione di mobilitare forze, spirituali e soprattutto psicologiche, atte a favorire un dato evento, attraverso una maggiore predisposizione individuale all’evento stesso di cui si desidera la realizzazione.

Date queste considerazioni iniziali, vale la pena di dedicarsi ad un particolare gruppo di simboli diffusi nella cultura tibetana, gli aṣṭamaṃgala, conosciuti in occidente come gli Otto Simboli di Buon Auspicio. Gli aṣṭamaṃgala traggono la loro prima origine dal mondo culturale indiano, dove gruppi di oggetti simbolici venivano associati alla figura del sovrano e alla sua regalità. Nel Buddhismo sono associati a diverse qualità e principi, e sono di comune utilizzo – pur con alcune variazioni grafiche e con un numero sequenziale progressivo differente – nella regione del Tibet-Xizang, nel resto del mondo buddhista cinese, in Nepal ed in Mongolia. È frequente notare come questi elementi ornino tanto gli edifici religiosi quanto le abitazioni private, decorino i mobili, gli oggetti artigianali ed anche il vestiario. Alcuni scorgono, suggestivamente, anche negli orizzonti formati dalle catene montuose himalayane questi simboli. Gli Otto Simboli di Buon Auspicio, chiamati anche Otto Preziosi Simboli, costituiscono uno dei più antichi e conosciuti gruppi di simboli della cultura tibetana. Sono presenti già a partire dai testi canonici del Buddhismo indiano, cioè nei testi redatti in lingua pali e in sanscrito. Si tratta di oggetti, animali o piante che servivano da oggetti rituali o che comunque venivano identificati come segni di prestigio. Da sempre utilizzati nelle cerimonie tradizionali e nelle occasioni speciali, hanno assunto nel corso dei secoli un’importanza sempre maggiore. Gli otto simboli di buon augurio si trovano spesso riprodotti sulle kate (la sciarpa tibetana di buon auspicio e benedizione), vessilli, arazzi, tangka, bandiere, braccialetti, collane e incisi sugli oggetti più disparati. Possono inoltre decorare muri e travi, il lati dei troni e molti altri oggetti sia di uso religioso che profano. Vengono talvolta tracciati sul terreno con polvere bianca quando è previsto il passaggio di qualche importante personalità religiosa o civile.