Cambiamenti climatici? O potere delle biotecnologie? In realtà entrambi, insieme ad un pizzico di storia. Stiamo parlando di “Ao Yun”, un vino 100% made in Tibet e una bevanda da vero Guinness dei Primati. Che il Tibet ora possa fare concorrenza ai migliori vigneti italiani o francesi? Probabile, dato che ha riscosso un certo successo nelle grandi tavole della Haute cuisine francese, ma riavvolgiamo il nastro per un secondo e voliamo a Lhasa.
Una scommessa targata Louis Vuitton
In Tibet a 3.563 metri sul livello del mare si produce un vino nato da un’idea di Bernard Arnault, Presidente e Ceo di Lvmh. Messo su mercato per la prima volta nel 2013 questo vino rosso è frutto di una vera sfida di un manipolo di investitori che hanno investito qui, credendo in questa partnership internazionale che vede Lhasa e Parigi ideatrici di uno dei vini di lusso più ricercati sulle tavole. “In effetti, questo è un segnale molto positivo – ha raccontato Maxence Dulou, Direttore di uno dei vigenti di Ao Yun – non solo per il mondo del vino in generale, ma anche per l’economia agricola locale”.
I primi vigneti furono impiantati nel 2008 e la carta vincente è stata coinvolgere – sin dall’inizio – la popolazione locale. 120 famiglie che collaborano attivamente alla produzione di questo vino particolare. Il 100% delle operazioni sui vigneti è svolto a mano, secondi i principi della produzione biologica e della centenaria tradizione locale.
Cenni storici della viticoltura in Tibet
Pensando alla geografia del Tibet, tutto verrebbe in mente che sia una terra adatta alla viticultura. In realtà non è proprio così. Certo, la vite non è una pianta autoctona, ma nel passato l’uva ha avuto modo di essere coltivata sul Tetto del Mondo. Infatti già da epoca imperiale, verso l’VIII secolo d.C. le odierne province cinese di Ningxia e Qinghai, una volta facenti parte del regno Tibetano, avevano cominciato ad ospitare le prime piantagioni di uva. Arrivate sicuramente attraverso i traffici lungo la via della Seta.
Ma quale la connessione con il vino? Anche qui il “deus ex machina” è la Francia. Furono infatti i francesi a provare per primi nel 1700 circa a coltivare nei pressi di Lhasa i primi vitigni. Per la precisione furono i missionari cristiani che, avendo bisogno del vino per la funzione domenicale della messa, decisero di produrre in loco il vino necessario. Insomma, di necessità si fa virtù. Certo il clima monsonico tibetano tipico degli altopiani semiaridi, rese la viticultura in Tibet decisamente estrema. Tuttavia il loro pionieristico lavoro fu necessario per arrivare, secoli dopo, ad Ao Yun. Oggi questo vino si produce a cavallo tra Tibet e Yunnan dove, il clime più mite ed un suolo meno arido, rende più semplice la viticoltura. Stiamo tuttavia sempre parlando di una parte di mondo a circa 3000 metri di quota!
Un vino di lusso
Oggi, anche grazie al supporto delle biotecnologie ed un pizzico di cambiamento climatico, in uno dei più grandi vigneti tibetani, di 66,7 ettari, sono piantate circa 11 varietà di uve tra cui il vidal, il muscat e una varietà adatta a produrre icewine chiamata bei bing hong (questa una variante tutta autoctona cinese conosciuta sin da epoca Han).
Felix Ho, uno dei sommelier di uno noto ristorante parigino “L’Atelier Joel Robuchon” ha descritto il rosso Ao Yun come “una vera sorpresa per i nostri clienti. Molti di loro, una volta assaggiato, hanno pensato che fosse un classico Bordeaux, solo alla fine ha scoperto che il vino proveniva dal Tibet ed ovviamente sono rimasti stupefatti della qualità. In modo positivo.” Tutti pazzi dunque per questo vino tibetano, ma attenzione, non è proprio un vino economico. In media una bottiglia supera tranquillamente i 200 euro. Insomma, ci troviamo davanti un vero prodotto di lusso che, nonostante tutto, piace al mercato e ai palati raffinati.