TIBET, ULTIMA FRONTIERA DA ESPLORARE - PRIMA PARTE

  • by Redazione
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  • 29 Giu 2017
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Il Tetto del Mondo, questa inaccessibile ed impervia area di mondo, ha da sempre attirato e suscitato la curiosità di esploratori e viaggiatori, ma quale era la percezione che in Occidente si aveva del Tibet? Esploratori di origine ellenica, per poi passare al Medioevo,  cosa pensavano di trovare al di là dei grandi deserti dell’Asia centrale?

La letteratura è unanime nel ritenere che le prime notizie sul Tibet sono da ricondurre all’epoca degli scritti e delle mappe di Claudio Tolomeo, geografo greco antico di epoca imperiale, considerato uno dei padri della geografia. I suoi, ad onor del vero, sono piuttosto cenni che risultanze concrete dell’esistenza di tale regione, molto presumibilmente arrivate per bocca di mercanti e spedizioni macedoni precedenti. Nelle carte, rielaborate in età medievale in Europa, epoca in cui si riscoprì e valorizzò il suo trattato Geografia, si fa riferimento ad una terra incognita al di là dei Monti Emodi (presumibilmente la catena himalayana) e di un fiume che scorre a nord, con ogni probabilità riferimento allo Yarlung Tsang-Po, il tratto tibetano dello Brahmaputra, che dopo 2.900 km e dopo aver attraversato Cina, India e Bangladesh sfocia nelle acque del golfo del Bengala unitamente a quelle del Gange.

Dopo questa fugace prima menzione in Tolomeo, si dovrà attendere gli anni del medioevo mentre i geografi arabi avevano scoperto l’interesse per questa regione già nell’VIII secolo. Abbiamo detto delle testimonianze di Giovanni da Pian del Carpine e di Guglielmo di Rubruck ma la maggior parte degli storici è anche sì concorde nel ritenere che questi viaggiatori medievali spintisi sin nelle più remote terre d’Oriente abbiano visitato il Tibet vero e proprio. Certo, è pur vero che, se ad oggi il Tibet è da considerarsi la regione autonoma dello Xizang il cui territorio amministrativo, con capitale Lhasa, è ben definito e occupa l’area che si adagia sul versante cinese della catena dell’Himalaya, questo riferimento territoriale non è valido per l’epoca del dominio mongolo (seconda metà del 1200 e seconda metà del 1300) in cui si svolsero i viaggi degli occidentali.

I viaggi dei primi “esploratori” europei in Asia centrale si collocano quindi a metà del XIII secolo dopo che, nel 1241, i mongoli si ritirarono dall’Europa in seguito alla morte del Khan Ogedei il quale, a capo di un esercito di 150.000 uomini, invase terre divise in numerosi regni ed indebolite dal forte contrasto tra il Papato e il Sacro Romano Impero. Nel 1243, Re Luigi IX, poi proclamato Santo, e il Papa Innocenzo IV inviarono, allora, degli emissari presso il Gran Khan di Mongolia per conoscerne le future intenzioni. In questa occasione il monaco francescano Giovanni da Pian del Carpine fu delegato presso i Tatari con l’incarico di portare due bolle papali a Güyük Khan, nipote di  Gengis Khan, all’epoca Gran Khan dell’Impero mongolo. Scopo della missione diplomatica quello di scongiurare un nuovo flagello mongolo sulla cristianità e di sondare un’alleanza per una guerra contro i  Turchi  e la liberazione della  Terra Santa. Il viaggio verso l’Impero Mongolo di Giovanni da Pian del Carpine fu lunghissimo e avventuroso. Molto si sa di questo viaggio (che attraverso la Polonia e poi la Russia sembrava doverlo condurre ai confini del mondo) grazie allo straordinario resoconto che egli stesso ne dette nella sua  Historia Mongalorum trattando degli usi e costumi dei mongoli. Il suo itinerario si sviluppò da Cracovia a Kiev, superando poi il fiume Volga e il  mar Caspio, per giungere sul  lago di Aral; da qui si diresse verso il  lago Balqaš, per proseguire in direzione di  Karakorum, dove per la prima volta incontrò il Khan e la nobiltà mongola; fu un viaggio costellato di spettacoli raccapriccianti, fatiche e stenti, ma anche di racconti e incontri favolosi. Dalle pagine della sua cronaca risuona vivida la voce umile e al contempo risoluta di Giovanni, uomo che, per primo e dal vero, svelò agli  europei  i segreti di quell’Estremo Oriente  per secoli temuto e favoleggiato. In Historia Mongalorum si trovano le prime informazioni sul Tibet: si parla, infatti, di Burithabet, forma composta nota anche da fonti cinesi (buri-thabet, Tibet dei Lupi), che disegna una piccola zona settentrionale della regione dell’altopiano. Nella critica della pubblicazione dell’opera del francescano datata 1913 si legge che ancora nel viaggio di ritorno sottomisero il Burutabet, nel quale è da riconoscere il nostro Tibet.  Le informazioni fornite da Giovanni da Pian del Carpine non sono, però, di prima mano e sembrano frutto di racconti orali, leggende e dicerie. Si presentano i tibetani come assai deformi, quasi glabri ed anzi con un uso molto diffuso al giorno d’oggi si strappano i peli che possono spuntare sulle guance o sul labbro superiore.

Un altro europeo, un fiammingo stavolta, che viaggiò verso oriente, nella Mongolia e nella Tartaria fu il missionario Guglielmo di Rubruck, frate appartenente all’Ordine dei Frati Minori. In Itinerarium, resoconto del viaggio in Asia e considerato da molti uno dei capolavori della letteratura geografica medievale, egli racconta con piacere e senza vergogna le proprie sensazioni e sentimenti vissuti in quella landa di terra lontana dall’Europa. Quando incontra i Tartari ha l’impressione di entrare in un altro mondo: tutto è strano e nuovo rispetto a ciò a cui è abituato in Occidente, e Guglielmo osserva, si sforza di comprendere, e spesso manifesta lo sgomento di colui che è stato catapultato in un mondo diverso. Nella sua opera il francescano impiega il termine Tebet che nella terminologia dei popoli attigui all’altopiano indica ciò che i tibetani definiscono Bod.