GEOGRAFIA
Un’impervia regione di montagna che a distanza di mezzo secolo continua a godere dei benefici di una riforma agraria capace di sradicare i privilegi di una teocrazia che aveva fra l’altro perso gran parte della propria spiritualità e si era impastoiata nei meandri secolari.
Un tessuto produttivo che in cinquant’anni ha incrementato il proprio PIL di 300 volte e beneficia di consistenti sovvenzioni e investimenti da parte del governo centrale, il quale ha investito in una robusta infrastrutturazione innervata su autostrade e tratte ferroviarie ad alta velocità. Una Regione Autonoma che, in virtù delle proprie specificità culturali ed etniche, gode del bilinguismo, ma anche dell’istruzione gratuita e di un servizio sanitario capillare. Il suo capoluogo primeggia da tempo nelle graduatorie nazionali riguardanti la qualità della vita, con particolare riferimento agli indici di sicurezza e di funzionalità dei servizi pubblici urbani.
Tutto questo caratterizza la Regione Autonoma cinese dello Xizang (nome che significa “dimora del tesoro occidentale”), la quale potrebbe pertanto ben esemplificare l’ennesimo miracolo economico che la Repubblica Popolare Cinese ha compiuto in questi ultimi decenni. Il nome di per sé tuttavia dice poco, né aiuta il lettore occidentale medio sapere che tale area racchiude alcune di quelle prefetture dell’ovest della Cina che finora sono rimaste al di fuori dell’ancor più vorticoso sviluppo che ha interessato la fascia costiera e le metropoli immediatamente adiacenti.
UN NOME, TANTE STORIE
Se, invece, si usa il nome tradizionale “Tibet”, la percezione cambia completamente ed entra in gioco quella costruzione retorica e propagandistica che i media mainstream congiuntamente ai think-tank statunitensi hanno intessuto attorno alla figura di Tenzin Gyatso, meglio noto come “il Dalai Lama”, Premio Nobel per la Pace 1989.
Incastonato nel cuore dell’Asia, è una sorta di anello di congiunzione tra la sfera d’interesse russa, l’India e la Cina, gli assi portanti del BRICS ed i punti di riferimento per chi auspica un mondo multipolare. L’unificazione del Tibet in un regno risalga al VII secolo d.C. a opera di Songtsen Gampo, ma nei secoli successivi Lhasa avrebbe intensificato il suo legame con il Celeste Impero, soprattutto al fine di ottenere protezione dalle incursioni mongole. Risale al 1720 (ben prima che gli Stati Uniti d’America nascessero ovvero cominciassero ad espandere i propri territori a scapito di nativi e Stati confinanti) la spedizione militare dell’Imperatore Kangxi della dinastia Manciù capace di debellare definitivamente la minaccia dei discendenti del Gran Khan, sicché l’anno seguente, dopo che già da 80 anni il regno tibetano era tributario del potente vicino, il Lungo Decreto determinò l’ingresso del regno nella compagine imperiale.
Tale appartenenza sarebbe stata messa in discussione solamente nel mesto periodo della storia cinese che rimase noto come il Secolo delle umiliazioni (1839-1949), caratterizzato dalle Guerre dell’Oppio (1839-1842 e 1856-1860), dalle concessioni commerciali e territoriali estorte dalle potenze coloniali europee ed extraeuropee (USA e Giappone), dalla repressione della rivolta dei Boxer (1900) e pure dall’infiltrazione britannica in Tibet.
Nel 1888 e nel 1904 spedizioni provenienti dall’Impero indiano consentirono a emissari di Sua Maestà di prendere il controllo dei valichi di confine tibetani, imponendo alla decadente dinastia Qing di accettare l’ennesimo fatto compiuto. La terza incursione avvenne nel 1912, durante la delicata transizione alla repubblica: la burocrazia dello Stato fondato da Sun Yat-sen si era dotata immediatamente di un Ufficio per gli affari mongoli e tibetani, ma a Lhasa e dintorni personale inglese e indiano aveva già preso il controllo di dogane, principali vie di comunicazione e stazioni. Nell’imperversare della guerra civile e dell’espansionismo nipponico, il Dragone cinese non ebbe modo di rimediare a questa usurpazione di sovranità, però il movimento nazionalista Kuomindang, il quale godeva del sostegno angloamericano, considerava il Tibet come parte integrante della nascitura nuova Cina e la fazione maoista non era da meno. D’altro canto monaci e laici tibetani sostennero lo sforzo del legittimo governo cinese impegnato contro l’invasione giapponese e non si riscontrarono significative adesioni a movimenti che si riconoscessero nei postulati della cosiddetta “Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale” patrocinata da Tokio. La stabilizzazione conseguita alla sconfitta di Chang Kai-shek consentì alla neonata Repubblica Popolare Cinese di occuparsi in maniera adeguata alle problematiche tibetane: nel 1951 un accordo in 17 punti tra le gerarchie locali ed il governo centrale ridefinì l’appartenenza di Lhasa all’ecumene cinese, ma già operavano con funzioni destabilizzanti agenti della CIA, i quali facevano leva su quei gangli della teocrazia lamaista che vedevano i propri privilegi secolari erosi dai progetti riformisti di Pechino, con particolare riferimento alla riforma agraria. Il 19 marzo 1959 il Dalai Lama dette il via libera all’insurrezione armata, la quale esordì compiendo uccisioni e attacchi nei confronti della comunità cinese di etnia Han. L’intervento della XVIII Armata agli ordini del Generale Zhang Guohua ristabilì l’ordine prima che forze statunitensi o britanniche potessero interferire, costringendo a riparare in India i vertici della sedizione, Dalai Lama compreso.
Nuova Delhi auspicava di risolvere le proprie vertenze confinarie con la Cina (destinate a sfociare in guerra aperta nel 1962) favorendo il separatismo tibetano, in maniera tale da rapportarsi a nord con un interlocutore più debole e malleabile; altrettanto strumentale si sarebbe rivelato l’appoggio di Washington, destinato a scemare in seguito alla “diplomazia del ping-pong” ed ai successivi distensivi sviluppi giunti a maturazione negli anni Settanta del secolo scorso.
Solamente nel 1989, in concomitanza con il crollo del Muro di Berlino e contestualmente ai disordini che portarono alle manifestazioni di Piazza Tienanmen, Tenzin Gyatso sarebbe tornato alla ribalta chiedendo l’indipendenza integrale del Tibet e ricevendo il Premio Nobel.