IL “CONCILIO DI SAMYE” E LA NASCITA DEL BUDDISMO TIBETANO

  • by michele
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  • 29 Mar 2017
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A Lhasa, di fronte al tempio di Jokhang si trova il monumento che celebra l’impegno alla pace tra la dinastia Tang e il regno tibetano. Questa durò per oltre due secoli e a sancire la firma del trattato fu il sovrano dell’Altopiano Songtsen Gampo che nel 641 sposò la principessa cinese Wen-Ch’eng, nipote dell’imperatore Taizong, della dinastia dei Tang. Fu inoltre grazie alle mogli Bhrikuti e Wencheng che Songtsen Gampo si convertì al buddismo sostenendo ed alimentando la nuova religione in tutta la Regione.

Nel 788 d.C. a Samye, duecento chilometri a sud- est di Lhasa, sotto gli auspici del sovrano Trhisong Detsen,  fu edificato il primo monastero buddista dell’impero tibetano. Leggenda vuole che il sovrano Trhisong Detsen nel 786 invitò in Tibet Padmasambhava, il “nato dal loto”, maestro Guru Rinpoche il quale, con pratiche magiche praticate sul colle di Hepo Ri, rese possibile la fondazione di questo monastero. Mitologia a parte, la realizzazione del complesso di Samye fu una pietra miliare del Buddismo lamaista e dell’intera cultura tibetana perché, da questo momento, fu possibile iniziare alla vita monastica dei tibetani e provvedere a un grande progetto di traduzione del corpus letterario buddhista dal Sanscrito al tibetano.

Fu proprio tra le mura di questo monastero che, dal 792 al 794, avvenne il celebre “dibattito di Samye”, un importante concilio indetto per risolvere le divisioni dottrinali interne al buddismo tibetano tra quelli vicini all’ispirazione indiana della dottrina e i fautori della scuola cinese. Il dibattito si incentrò principalmente sulla questione del bodhi, ovvero se l’illuminazione si raggiunga gradualmente attraverso la graduale attività o improvvisamente e senza il costante esercizio. Di fatto, quando il Buddismo divenne la religione ufficiale dell’Altopiano, i vertici monastici cominciarono a porsi nuove domande. Infatti, come anche sottolineato dalla storiografia del tempo, gli insegnamenti Buddhisti arrivarono in Tibet da fonti diverse: dalla Cina, dall’Asia Centrale, dall’India e dal Nepal, ciascuno con sfumature dottrinali proprie. Gli aderenti al Buddismo di ascendenza indiana sottolineavano l’avvicinamento progressivo e graduale all’illuminazione spirituale, grazie a quella accumulazione paziente di meriti morali che risolvevano in questo modo la questione della retribuzione karmica e all’aiuto di una guida spirituale di un maestro; al contrario, i seguaci del Buddismo di origine cinese peroravano la teoria dell’illuminazione, improvvisa, subitanea e spontanea.

Il dibattito dottrinale, durato ben due anni, ebbe luogo davanti al Re tibetano che si dichiarò favorevole alla scuola “gradualista” indiana, anche in virtù del fatto che erano il gruppo più numeroso sul territorio e non è da escludere che la sua decisione fu anche seguita da logiche di politica interna, inoltre, con ogni probabilità, la sentenza del sovrano fu influenzata in qualche misura dalla guerra intermittente allora in corso tra il Tibet e la Cina.

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