IL TIBET DURANTE LA DINASTIA MING

  • by Redazione I
  • |
  • 05 Lug 2024
  • |
IL TIBET DURANTE LA DINASTIA MING, Mirabile Tibet
La Grande Muraglia cinese a Jinshanling, costruita tra 1368 e 1389 dalla dinastia Ming


Siamo nella seconda metà del XIII secolo e, come i nostri lettori ricorderanno, l’epoca del dominio mongolo nel Tibet è finita. In Cina c’è stata la rivolta dei Turbanti Rossi e il suo leader – Zhu Yuanzhan, di etnia Han – è salito sul trono come imperatore. A fondare una propria dinastia, che dal 1368 durerà fino al 1644 e che al suo apice vedrà il suo dominio estendersi su più di dieci milioni di chilometri.

Nelle terre tibetane la situazione è complessa, tant’è che molti passaggi di questo periodo sono ancora dibattuti. Quello che sembra abbastanza chiaro è che la dinastia Ming inizia dal ripristino della visione confuciana, soprattutto nell’organizzazione pubblica. Che mette un grande accento sulla rettitudine, sulla fedeltà e sull’efficiente responsabilità nella gestione dei territori ma che, di conseguenza, instaura un diverso rapporto con il Buddhismo (che viene ignorato o soppresso) e i suoi maestri tanto apprezzati dai Mongoli. Pertanto, la dinastia introduce la sua riorganizzazione anche nel Tibet – cambiando la struttura dell’amministrazione locale e riassegnando titoli e cariche. Ma nessuno dei tredici leader locali si dichiara esplicitamente vassallo: anzi, uno di questi è già in rivolta.

Parliamo di Changchub Gyaltsen, che in opposizione alla dinastia Yuan aveva messo fine al dominio Sakya, riorganizzato il territorio e ripristinato un’indipendenza che sarebbe durata per quattrocento anni. Sovrano del Tibet dal 1354 al 1364 e fondatore della dinastia Phagmodrupa nel Tibet centrale, con un progetto inspirato alla leggendaria figura di Songtsen Gampo. Ebbene, nonostante la dinastia Ming lo nomini come Ministro dell’Educazione, Changchub Gyaltsen persegue il sogno di restituire al Tibet la gloria del suo miglior periodo imperiale e di promuovere la cultura e le tradizioni locali. Infatti, il codice legislativo da lui introdotto, e che riprende il sistema giuridico tibetano, dura fino al XX secolo.

Stesso dicasi per i tentativi di “arruolare” con nuove cariche maestri locali appartenenti alle scuole Kargyu e Gelug: le analisi degli storici parlano di garbati rifiuti agli inviti e di nomine senza alcun seguito nella gestione del territorio. Ciò nonostante, nessun esercito Ming fa la sua apparizione nel Tibet, i confini occidentali della dinastia rimangono gli stessi (Gantsu, Sichuan e Yunnan), le missioni diplomatiche continuano a essere inviate nella Regione ancora nel Cinquecento e i sovrani tibetani mantengono le proprie relazioni, anche conflittuali, con il Nepal e il Kashmir. Senza dimenticare le dinastie tibetane Phagmodrupa, Rinpungpa e Tsangpa, che fino al 1642 – cioè, quasi fino alla fine della dinastia Ming – non vedranno alcun intervento dell’impero cinese nella successione delle famiglie regnanti.

Quello che invece si intensifica per un periodo è lo scambio, già precedente ai Ming, del tè cinese con i cavalli tibetani. Che l’impero usa sia per il rifornimento all’Esercito, sia per la sua cavalleria. La visione confuciana disprezza il commercio che guarda solo al profitto, quindi il permesso ai tibetani di vendere ai Han deve essere concesso esplicitamente. Cosa che accade – purtroppo, con l’aggiunta di troppi controlli e di un monopolio imperiale sulla produzione del tè che faranno crollare questo mercato. Così, cominciano a svilupparsi “gli omaggi”: i tibetani inviano cavalli e altri animali domestici, erbe medicinali e incensi, thangka e lavori artigianali; i Ming ricambiano con oro e argento, sete, cereali e grandi foglie di tè.

Nata da una rivolta, la dinastia Ming verrà conclusa da un’altra: quella di Li Zicheng, fondatore della breve dinastia Shun seguita dalla dinastia Qing. Che nel 1717 invaderà la Regione, nel 1720 occuperà Lhasa e nel 1751 stabilirà nel Tibet un protettorato e una guarnigione permanente. Ma questa è un’altra storia.