
Come ogni 28 marzo, oggi il Tibet celebra il cambiamento di una struttura sociale durata a lungo e la liberazione di buona parte della popolazione dalla condizione servile. Una festa simile alle decine in giro per il mondo, tra tutti i popoli prima o poi usciti da sistemi feudali o regimi coloniali. Nell’arco, purtroppo, di ben nove secoli – dalla Normandia, dove la servitù scompare nel 1100, al Tibet che, per iniziativa della Cina e decisione dell’amministrazione locale, la abolisce nel 1959.
Istituzione antica, quella della servitù. Non identica alla schiavitù ma altrettanto oppressiva. Molto legata ai lavori agricoli e, per quanto riguarda il Tibet, per circa 400 anni inevitabilmente diversa da regione a regione. Quando, durante l’Era della Frammentazione, a governare parte dei territori del collassato Impero tibetano sono dei regnanti (Signori “del feudo” ma anche “della guerra”) di differenti tendenze e appartenenze religiose.
A ogni modo, anche secondo diversi studiosi occidentali, parliamo di un sistema feudale e teocratico che, dopo la fine della Frammentazione, addirittura si rafforza. Legando alla terra, negando libertà personali e civili, e controllando ogni aspetto della vita degli “inferiori” – peraltro, trattati come proprietà ereditaria. Perché la struttura tibetana precedente al 1959 prevede tre classi (superiore, media e inferiore) basate su linea di sangue e posizione sociale, ognuna suddivisa in ulteriori identici tre livelli. A stabilire, così, il valore delle vite: per un funzionario governativo, un alto membro del Clero e un nobile di rango, il suo peso in oro; per un servo, un singolo pezzo di corda di paglia.
Il tutto, in un rapporto di 5 a 95. Laddove a detenere le terre e le risorse, dalle aree coltivabili ai fiumi e le foreste e dal bestiame ai pascoli, è il 5% della popolazione. Fatto – in ordine decrescente – proprio da funzionari governativi, monasteri e aristocratici. Comprese dunque le famiglie impegnate nella corsa alle alte posizioni religiose o nella designazione del Dalai Lama, in una cultura che nel 1959 conta quasi 115mila monaci (uno su quattro della popolazione maschile) in oltre 2,6mila monasteri. In diversi casi, luoghi non solo di preghiera, di Conoscenza e di Arte ma anche di potere economico, politico, militare e persino giudiziario. Torture e crudeli punizioni corporali incluse – e senza approfondire i terribili dettagli dei destini riservati ai servi di genere femminile.
Come dicevamo, una storia deplorevolmente condivisa da tanti altri popoli di almeno quattro Continenti. Una storia della cui giusta fine, nel Tibet, oggi si celebra il 66mo anniversario.