Tra il VII e l’XI secolo, per opera di tre Re, quello Tibetano è un impero. Che si estende in quasi tutte le direzioni, dall’Himalaya al Bengala e ad alcune province cinesi, per poi decadere sotto il dominio mongolo.
Il primo in ordine di tempo è Songtsen Gampo, il trentatreesimo re sui quarantadue a governare in questi due secoli. Che – salito sul trono a soli tredici anni – stimola le prime traduzioni dal Sanscrito nonché la scrittura in Tibetano, fa costruire molti templi (incluso Jokhang), riunifica un territorio frammentato, sposta la Capitale da Yumbulingka a Lhasa e comincia l’espansione. Con la diplomazia ma anche con le armi: si racconta infatti che, vedendosi rifiutata la richiesta di sposare la principessa cinese Wencheng, Gampo prima attacca in un punto strategico per il commercio verso l’impero vicino, poi ne avvia una vera campagna militare. Le nozze, celebrate sei anni dopo, apriranno un lungo periodo di pace.
Il secondo è Trisong Detsen o Tri Songdetsen. Che a distanza di circa un secolo da Gampo, di fronte alla perdita di alcuni territori in Turkistan, della ribellione nel Nepal e della crescente pressione araba alla frontiera, riprende le vie diplomatiche e belliche. Verso il Califfo Harun ar-Rashid a ovest e verso la dinastia Tang a est. Dove, conquistata la Capitale cinese Chang’an e ottenute con il trattato di pace anche le terre dell’odierno Qinghai, Detsen cercherà un’alleanza utile ad attaccare anche il Sichuan.
Infine, Ralpachen – durante il regno del quale l’impero raggiunge la sua massima espansione. Militare, e che comprende territori della Cina, dell’India e dell’odierno Pakistan senza dimenticare l’allora Khaganato uiguro. I due maggiori conflitti – con l’impero cinese, per il controllo della Via della Seta, e con gli Uiguri, per la loro alleanza con la dinastia Tang – verranno chiusi sei anni dopo con altrettanti matrimoni di Stato e trattati di pace. Quello Sino-Tibetano (Changqing), riassunto in un’iscrizione bilingue, verrà ricordato con il bellissimo pilastro in pietra fuori dal Monastero di Jokhang.
Tre Re. O, meglio, tre “Re del Dharma” – perché è a loro che si deve l’introduzione e l’affermazione del Buddhismo nel Tibet. Gampo, la cui sposa-principessa cinese porta in dote una statua del Buddha Sakyamuni, impara dalla cultura indiana e mette le basi spirituali della futura pratica. Detsen invita tre grandi maestri indiani a insegnare (anche alla propria consorte, un’altra principessa cinese, che diventerà “la madre del Buddhismo”), stimola i dibattiti tra le scuole, apre un concistoro e sostiene la nascita di comunità monacali di ex membri dell’esercito tibetano. Ralpachen chiama ricercatori e traduttori dalla Cina, dal Nepal e dal Kashmir, appoggia la diffusione scritta degli antichi Sutra, fa costruire mille monasteri e riordina le regole clericali. Anche assegnando un reddito da sette famiglie per ogni monaco, sotto precise sanzioni in caso di mancato rispetto.Purtroppo – per via delle proprietà terriere ricevute negli anni come donazioni, della pratica degli affitti e dei commerci esentasse e quindi del loro crescente potere economico – diversi monasteri accusati di avidità e abuso verranno distrutti e molti monaci verranno esiliati o uccisi dal (regicida e usurpatore) fratello di Ralpachen. Ma, nei monasteri sopravvissuti perché “non istituzionalizzati”, la Spiritualità fiorirà. E porterà a un vero Rinascimento del Buddhismo, imperniato sul ritorno alle fonti e agli insegnamenti originari – anche in termini di disciplina monacale: all’inizio dell’XI secolo, le quattro grandi tradizioni (Nyingma, Kagyu, Sakya e Ghelug) sono ormai pronte.