LA NUOVA VIA DELLA SETA IN TIBET?

 

Per anni gli Stati Uniti hanno usato i separatisti tibetani come arma geopolitica per esercitare pressioni sulla Cina. Sulla carta il nuovo presidente americano Donald Trump dovrebbe essere meno interventista e non interferire negli affari delle altre nazioni. In realtà le prime mosse sembrano in tutt’altra direzione. La conversazione con la presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha interrotto una tradizione diplomatica di lunga data degli Stati Uniti e ha suscitato le proteste cinesi. Addirittura Trump ha annunciato di voler usare la questione delle due Cine come aperta arma di ricatto per ottenere vantaggi nei rapporti commerciali con il gigante asiatico. Le spinte che si fanno avanti nel Congresso a tale proposito sono assai bellicose. Ci sono proposte di ritorsioni contro la Cina e addirittura contro chi ne appoggia le rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale (esclusa Taiwan) in base alle delibere di un tribunale che gli americani non riconoscono.  Si ventilano persino sanzioni contro chi minaccia l’autonomia di Hong Kong dopo che Joshua Wong, il giovane leader studentesco, è andato a fare lobbying tra i più retrivi Cold Warriors presenti nel Congresso USA. Forse però la proposta più grave è quella dei congressisti repubblicani affinché il presidente neoeletto incontri il Dalai Lama. Cosa per altro non nuova tra i presidenti americani.

Tutti i politici europei sono sensibili al fascino del Premio Nobel per la Pace e dato l’astio di Trump contro i musulmani non è detto che si possa giocare pure la carta dello scontro diretto tra buddismo e Islam, come sta avvenendo in Birmania e anche in Tailandia. Occorre rammentare la lunga storia del Programma tibetano della CIA. Washington si è sempre proposta di accentuare le tensioni etniche attraverso l’incoraggiamento del separatismo in Cina. I documenti della CIA declassificati nel 1998 fanno luce sulle operazioni segrete degli Stati Uniti nella Regione Autonoma del Tibet (TAR) negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo.

I sostenitori del Dalai Lama al Congresso, come il repubblicano Sensenbrenner, amano chiamare questi avvenimenti “protesta pacifica”.  In realtà si trattò di una palese attività di spionaggio e sabotaggio appoggiato dalla CIA. Il programma della CIA tibetano, cominciato concretamente nel 1956, si basa sulle promesse e gli impegni del governo americano con il Dalai Lama tra il 1951 e il 1956. Il programma era costituito da propaganda, operazioni paramilitari e spionaggio, opportunamente coordinate e supportate dalla CIA.

Gli Stati Uniti e i propri alleati in Occidente hanno sempre armato ogni movimento separatista contro i loro rivali geostrategici. La lunga serie d’interventi comprende l’appoggio ai Fratelli della Foresta nei paesi baltici, ai separatisti ucraini, spesso ex collaboratori dei nazisti, contro l’Unione Sovietica nel primo dopoguerra, fino all’appoggio all’UCK contro la Serbia. Il sostegno ai movimenti separatisti come quello tibetano ha in gran parte lo scopo di applicare una pressione geopolitica. L’India fu utilizzata come piattaforma di appoggio per il separatismo tibetano fino al momento della guerra di confine del 1962. Probabilmente fu la stessa India di Indira Gandhi, l’allora primo ministro, che diminuì gradualmente la cooperazione attiva con gli Stati Uniti.

Buddha Warriors

Ritorniamo all’aura “pacifica” che in Occidente si ha del Buddismo. Nel febbraio del 1997 tre monaci buddisti, incluso un amico stretto e confidente del Dalai Lama, il settantenne Lobsang Gyatso direttore dell’Istituto di Dialettica Buddista, furono assassinati con un omicidio rituale a Dharamsala, in India, la capitale dei tibetani in esilio. L’accusa cadde subito sui seguaci della setta di Dorje Shugden. Questi era un monaco del diciassettesimo secolo che fu ucciso (succedeva spesso nella società buddista) e il cui spirito sarebbe in cerca di vendetta. I seguaci della setta sono stati scomunicati dal Dalai Lama e il loro capo equiparato a uno spirito maligno. Il capo della setta avversaria, Geshe Kelsang Gyatso, accusa il Dalai Lama di avere inquinato i veri insegnamenti buddisti, di averli annacquati. E’ vero che la diatriba riprende elementi costantemente presenti nelle dispute tra varie sette del Buddismo lamaista che, bisogna ricordare, sono almeno quattro, mentre questa è tutta interna alla setta maggioritaria dei Gelugpa.

I monaci ribelli hanno manifestato in varie occasioni contro il Dalai Lama in particolare quando arrivò a Londra nel 1996, accogliendolo al grido “Viva il Tibet cinese” e “i vostri sorrisi incantano, le vostre azioni nuocciono”, “dittatore spietato che opprime la propria gente più dei cinesi”. Essi accusano “Sua Santità” di violare la libertà religiosa e i diritti dell’uomo tanto che hanno denunciato il Dalai Lama ad Amnesty International. I loro seguaci mancano dell’assistenza data dal governo in esilio (con i soldi della CIA e del Congresso USA), non possono viaggiare, non ricevono contributi sociali né l’assistenza per i bambini. I seguaci della setta sono stati dichiarati “nemici del popolo”. Una “società segreta per la distruzione dei nemici interni ed esterni del Tibet” ha minacciato di morte due giovani monaci di undici e tredici anni perché avevano svolto cerimonie in onore di Shugden. Questo gruppo minaccia i due asserendo che se non smettono di onorare Shugden, contraddicendo la parola di S.S. il Dalai Lama, non solo non saranno rispettati, ma la loro vita e le loro attività saranno distrutte. I cinesi in compenso hanno restaurato proprio il monastero da dove proveniva originariamente la setta, mentre i seguaci del culto sono cacciati dai monasteri in India e perseguitati dai fedelissimi del governo tibetano in esilio. Dal 1991 i seguaci di Dorje Shugden sono cresciuti sino ad avere duecento centri in Gran Bretagna e una cinquantina in altri paesi e puntano a diventare la setta maggioritaria del buddismo in Occidente. La Dorje Shugden Coalition accusa inoltre il governo in esilio di proteggere tibetani che si sono coperti di crimini comuni.

Shi Shan, che accompagnò il Dalai Lama e il Panchen Lama nell’incontro con Mao nel 1954, scrive che il Dalai Lama qualificò Mao col nome di Sole Rosso e come “l’uomo che glorifica l’intera nazione” e che “ha tenuto lontani gli invasori” dal Tibet! Ebbene Shi accusa apertamente il Dalai Lama di essere dietro l’assassinio di alcuni monaci tra gli anni settanta e novanta. Un uomo vicino al Dalai Lama, Vjigsmed Tshering, avrebbe dichiarato che sono stati uccisi almeno una decina di tibetani dissidenti su ordine del governo in esilio. Come si è visto i seguaci di Dorje Shugden confermano le accuse dei buddisti cinesi e tibetani che si oppongono al Dalai Lama.

Questi fatti non sono per niente eccezionali nella storia del buddismo tibetano. Dal diciassettesimo secolo in poi le quattro sette buddiste fondamentali si sono confrontate in scontri armati ed esecuzioni sommarie. In particolare le altre tre principali sette del buddismo tibetano si sono sentite minacciate e perseguitate dai berretti gialli, la setta del Dalai Lama. Sono poi seguite scomuniche varie giacché il buddismo tibetano non si è fatto mancare nulla del peggio delle altre religioni. Le cose successe in Tibet non sono nemmeno eccezionali se si considera il contesto internazionale. Brian Victoria nel suo bel libro Buddha Warriors sostiene che, sebbene i buddisti giapponesi abbiano ammesso il loro ruolo a sostegno del militarismo giapponese, forgiando lo spirito del “soldato zen”, considerino ancora la seconda guerra mondiale come una “guerra santa”.

Trump, la non ingerenza e la nuova via della seta

Trump manterrà la sua promessa di non ingerenza negli affari interni di altre nazioni? Finora non l’ha fatto, usando proprio una questione molto spinosa come il principio di “una sola Cina”, riconosciuto dagli USA sin dai tempi del presidente Carter, e facendo un affronto molto grave al grande paese asiatico.  Perché gli Stati Uniti continuano a intromettersi negli affari interni della Cina? Gli Stati Uniti hanno una lunga storia d’interferenze negli affari interni di quasi tutte le nazioni. Obama ha lanciato la politica di contenimento e isolamento della Cina con il Pivot To Asia e ha incontrato ben tre volte il Dalai Lama. Secondo il repubblicano Sensenbrenner, nel corso dell’ultimo mezzo secolo gli Stati uniti hanno avuto un rapporto forte e stabile con il popolo e il governo (in esilio) del Dalai Lama.

I cinesi vedono il Tibet come una questione di sicurezza nazionale e considerano il supporto dato al “Tibet libero” dell’Occidente come un tentativo di colpire al cuore la loro sicurezza. Secondo il professor Michel Chossudovsky l’intromissione negli affari delle regioni autonome costituisce un tentativo di innescare il conflitto etnico in Cina per servire gli interessi della politica estera americana.

Inoltre i cinesi vedono la mano statunitense dietro tutto questo, collegandolo alla pratica sottostante le rivoluzioni “colorate”, incoraggiate per allontanare i paesi ex sovietici dalla Russia. Peraltro, la sommossa del 2008, scoppiata in concomitanza delle Olimpiadi, e la minaccia di non partecipare alla manifestazione da parte dell’Occidente, ha avuto l’effetto di rafforzare lo spirito patriottico dei giovani cinesi. Questi ragazzi, spesso emigrati all’estero, si sono scatenati sul WEB per contrastare quelle che essi ritenevano delle falsificazioni dei media occidentali (su questo si veda FM Parenti 2014).

Il neo-presidente Trump probabilmente continuerà nella politica di sostegno del separatismo tibetano, come ha sempre fatto la leadership americana in nome della promozione della democrazia e della libertà religiosa o, più prosaicamente, come arma di ricatto per fini commerciali. Quest’ultima ipotesi è più in linea con la realtà geopolitica.

Il Tibet è storicamente una barriera per la sicurezza nazionale dell’Impero di Mezzo. Il territorio impervio ha da sempre costituito una difesa naturale come la Grande Muraglia a nord.

L’apertura del Tibet verso l’Asia centrale e meridionale diventa oggi fondamentale per la promozione del progetto One Belt, One Road, la cui strategia prevede l’apertura completa al mondo esterno e la creazione di un’area sicura e prospera.

La ripresa della Via della Seta è molto importante perché la Cina ha avuto il suo enorme sviluppo dopo il 1978 grazie alle vie di mare che l’hanno collegata al mondo. Con la nuova Via della Seta terrestre le merci passeranno proprio dalle zone più arretrate della Cina, contribuendo alla prosperità e dunque alla stabilità delle sue aree di confine. Il Go West enunciato dalla dirigenza cinese alla fine del secolo scorso prende dunque piede in un contesto più definito.

Il Tibet potrebbe fare da corridoio per altri paesi quali il Nepal, l’India, il Bangladesh e Bhutan. La TAR diventerebbe la bretella di collegamento innanzitutto a Kathmandu, in Nepal, tramite la continuazione della ferrovia Qinghai-Tibet. Il Nepal ha anche un governo a guida comunista e sarebbe ben disposto nei confronti della Cina, potendo beneficiare dell’apertura delle vie commerciali che porterebbero molti turisti e scambi commerciali. Quando la Cina si aprì al mondo alla fine degli anni settanta i primi successi arrivarono proprio dal turismo. Oggi la Cina ha numerosi turisti che visitano il Tibet, ma anche molti che vanno all’estero e potrebbero sfruttare le nuove infrastrutture per arrivare in Nepal.

Box approfondimento sulla Regione Autonoma del Tibet

La Regione Autonoma del Tibet è stata creata cinquantuno anni fa. Con i suoi 4 mila chilometri di frontiera, un sesto dell’intera Cina, la sua importanza strategica della regione come barriera storica contro le invasioni straniere è un’evidenza indiscutibile.

L’altitudine media è di 4000 metri, con una densità di ossigeno pari al 60% rispetto alle terre pianeggianti. Questa è anche una delle ragioni per le quali i cinesi han non sono mai stati particolarmente propensi a trasferirsi sull’altipiano, nonostante le accuse di “sommersione etnica” fatte periodicamente dal governo tibetano in esilio. Il governo cinese ha tutelato in modo particolare le risorse naturali del paese, che conta su fonti d’acqua decisamente superiori alla media nazionale: 439 miliardi di metri cubi d’acqua. Il plateau tibetano (non la sola Regione Autonoma), in particolare il Qinghai, ospita le sorgenti del Fiume Giallo, dello Yangtze e del Mekong, mentre il Monte Kailash è il luogo dove nascono l’Indo, il Brahmaputra, il Gange e il Sutlej. Il Tibet è dunque anche importante per le sue risorse strategiche – acqua, praterie, riserve naturali (il 33,9% del territorio) – che ne fanno una delle regioni più tutelate dal punto di vista naturalistico dell’intera Asia ed una importante barriera ecologica per la Cina.

In Tibet vivono circa 3 milioni di abitanti, di cui poco più dell’8% di etnia han (ovvero cinesi propriamente detti). Quasi triplicata dal 1951. Nei primi anni del nuovo secolo il tasso di crescita della popolazione tibetana, compresa quella al di fuori della TAR, era superiore del 100% rispetto al 1951; il tasso di mortalità infantile è crollato dal 430 al 20 per mille. Non si vede, dunque, nessuna sommersione etnica del popolo tibetano e nessun “genocidio” di cui parla l’informazione mainstream. L’aumento della popolazione tibetana sarebbe addirittura scarsamente sostenibile secondo uno studio dell’Accademia delle Scienze e potrebbe comportare disastri ecologici. Vi è una discriminazione positiva verso i tibetani che, infatti, non sono soggetti alla politica del figlio unico, per altro in via di superamento in tutta la Cina. E’ vero che durante i primi periodi della Repubblica Popolare molte persone di etnia han furono incoraggiate a stabilirsi nelle regioni di confine, ma è anche vero che dopo gli anni settanta la percentuale di residenti han è andata stabilizzandosi se non diminuendo. Il 92% degli abitanti della TAR è dunque composta da tibetani e di gruppi etnici minoritari da sempre residenti in Tibet.  Alcuni di questi gruppi etnico-religiosi erano perseguitati ai tempi del Dalai lama.

Il 25,7% della popolazione vive nelle città (Lhasa, Chamdo, Nyingchi, Shigatse), mentre gli han risiedono principalmente nella capitale. Si dovrebbe dire che la Cina piuttosto che negare i diritti umani sia stata portatrice di diritti umani primari. La speranza di vita è balzata dai 30 anni del periodo precedente al 1959 ai 68 anni attuali. Nonostante il livello record della Cina per avere sollevato quasi settecento milioni di persone dalla povertà assoluta, in Tibet ci sono 327.000 abitanti sotto il livello di povertà. Il tasso di analfabetismo che negli anni cinquanta superava il 95% è ora ridotto allo 0,57% nelle nuove generazioni. 608.500 sono gli studenti che studiano in ogni ordine di scuola. Nel vecchio Tibet non c’erano scuole in senso moderno, oggi ci sono ben quattro Università. Per l’ammissione nelle Università i tibetani (come le altre minoranze di altre regioni autonome) necessitano di un punteggio inferiore a quello degli han. Sono inoltre favoriti nelle tasse scolastiche. La religione è protetta: 46.000 sono i monaci e le monache. 1.787 sono i siti religiosi e 358 sono i Buddha viventi. Sono presenti inoltre quattro moschee e una chiesa cattolica.

I membri del Partito Comunista in Tibet erano 306.533 nel 2014 (il 10,22% della popolazione), mentre le organizzazioni di partito 6 mila. Ventuno sono i legislatori o deputati tibetani presenti nell’Assemblea Popolare Nazionale, ovvero il Parlamento cinese di cui, occorre dire, il Dalai Lama fu vicepresidente prima di fuggire in India. Ampiamente maggioritari (tra il 70 e l’80%) sono i rappresentanti tibetani nelle assemblee regionali e nelle file dei funzionari statali e dei quadri dirigenti.

Il PIL rispetto a cinquant’anni fa si è moltiplicato di 281 volte, dati del 2014, pari a novantadue miliardi di yuan. Da poche decine di imprese si è passati negli ultimi decenni a un incremento straordinario, dell’ordine di decine di migliaia. Una delle risorse fondamentali del Tibet è il turismo. Quindici milioni sono i turisti che hanno visitato la regione nel 2014, in aumento del venti per cento l’anno. I voli diretti da e verso il Tibet raggiungono trentatré città. 75.470 sono i chilometri di autostrada.

di Giambattista Cadoppi